Mi porto dietro un luogo comune su cui ogni tanto rifletto. Intellettuali di rango e discorsi da bar, da sempre, mi hanno convinto che gli Anni Ottanta siano stati il decennio della frivolezza, dell’immagine che prevale sulla sostanza, lontano dalla pienezza dei decenni confinanti. Ricordo, tra i tantissimi, un intervento di Roberto Vecchioni che parlava di quel decennio come se parlasse della Milano da bere, un luogo da non frequentare, privo di valori, arido, ben diverso dai gloriosi anni Settanta e dagli stessi Anni Novanta, ancora in corso mentre si esprimeva; lui stesso parlava di un “ritorno” ad antiche idee. Io, classe ‘69, in quel vituperato decennio c’ero entrato a dieci anni appena compiuti per uscirne a venti. Tolta la magia dell’infanzia, consumata nei due lustri precedenti, quegli anni con l’otto in penultima fila sono stati per me decisivi: mi sono divertito, innamorato, meravigliato e spaventato, ho sofferto, ho imparato e scoperto un sacco di cose, ho letto libri bellissimi e ascoltato musica di ogni tipo. Certo, non avevo alternative, perché il mio tempo era quello, e come tutti ho pescato anche nel pozzo dei decenni precedenti. Però ho sempre subito con rassegnazione i giudizi severi di chi scaricava su quel decennio la responsabilità del fallimento di sogni precedenti, o le difficoltà dei decenni successivi.
E questa cosa non mi torna del tutto.
L’altro giorno è morto George Michael. Non è mai stato un mio idolo ma alcuni suoi brani sono parte di quell’alfabeto quotidiano che ognuno si forma semplicemente vivendo. Da due giorni le sue note sono ovunque, e con loro è riemerso il mondo di cui son state, in parte, colonna sonora. Una delle prime facce che ho rivisto, canticchiandole, è stata quella di Gorbaciov, che a sua volta ha trascinato fuori dal cassettone del 1985 Rambo e Michael Jackson. Ho fatto un timido tentativo di mettere tutto a posto, ma su piste differenti sono partiti contemporaneamente Trough the Barricades, Sunday bloody Sunday, Wild Boys e The Power of love. Mentre sul pavimento attorno alla cassapanca erano caduti, aprendosi, Il Nome della Rosa e L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello. La faccia di Guglielmo da Baskerville è sempre quella di Sean Connery, ma insieme a lui, giuro, ho rivisto Sheen, Berenger e Dafoe col mitra in mano e l’Adagio di Barber in sottofondo: sì perché, a parte Blade Runner e C’era una volta in America, due capolavori assoluti di quegli anni, Platoon è stato uno dei film più importanti che abbia mai visto, perché mi ha prestato gli occhi per guardare la guerra. In quegli anni la guerra l’ho vista anche divertendomi, per carità, soprattutto grazie a Stallone e Schwarzenegger. Ma al cinema è possibile tutto, per esempio giocare col tempo (Non ci resta che piangere e Ritorno al Futuro), ed è possibile guardare Rambo e Platoon senza fare confusione, anche se hai sedici anni.
In effetti, per essere stati gli Anni Ottanta un decennio arido, poteva andarci anche peggio, a noi italiani che ci siamo cresciuti dentro, dico. A parte i mondiali di calcio in Spagna, e il Maradona migliore di sempre, ma abbiamo avuto Creuza de ma, Vita spericolata e La Donna Cannone, ad esempio, Born in the USA, The Final Cut e Brothers in Arms, ma anche l’idea che la musica possa diventare qualcosa di globale (Thriller aveva venduto 100 milioni di copie) e dalle potenzialità spesso trascurate (We are the world e Live Aid).
Sono stati anni formidabili, in cui tanti nodi hanno raggiunto il pettine: l’escalation nucleare, la trasformazione del Blocco sovietico, Piazza Tienanmen, Chernobyl, ma anche la dittatura in Argentina e l’Apartheid in Sudafrica. In quegli anni molte idee sono diventate virali: la riproducibilità a buon mercato dei film e degli LP, la trasportabilità della musica, il Computer per tutti: Amiga, Commodore, Spectrum sono nomi evocativi, più di Pentium, Athlon e Celeron.
Non esistono unità di misura per classifiche esatte sul valore dei decenni. Esistono setacci e griglie forgiati in altri tempi, da sovrapporre alla bisogna per cercare di capire. Ho la sensazione che gli Anni Ottanta siano stati un decennio dignitoso e di rottura, e che non siano stati perdonati da chi aveva coltivato i suoi sogni dieci o vent’anni prima, e che quei sogni ha visto trasformarsi in vita quotidiana, ma senza l’ironia sufficiente ad incassare il colpo. Ho la sensazione che gli Anni Ottanta siano una specie di brutto anatroccolo, destinato a restare tale finché lo si vorrà valutare come il fratello scarso degli anni Settanta e Sessanta. In realtà per molti aspetti sono stati un periodo di aperture e collegamenti mai visti prima, frutto delle riflessioni maturate a partire dagli anni Quaranta su Cibernetica, Ecologia e Complessità, e spuntate dal terreno con nuovi germogli.
È ovvio che in tutto questo io sono di parte, ma anche ipotizzando che quello di Madonna e Michael Jackson sia stato un decennio decadente rispetto ai due precedenti, possiamo sempre dire, sempre per citare i libri del tempo, che siamo “nani sulle spalle di giganti”. In realtà, io credo, siamo nani sulle spalle di nani; abbiamo solo il dovere di non rinnegare troppo quello che siamo stati, fosse anche solo per dare una base un po’ più affidabile agli altri nani, quelli che ora hanno bisogno delle nostre spalle per guardare più in là e capire dove stanno andando.
Nacqui dopopranzo, un martedì. Dovevo chiamarmi Sonia (non c’erano ecografi) o Mirko. Mi chiamo Luca. Dubito che, fossi femmina, mi chiamerei Sonia. A otto anni è successo qualcosa. Quando racconto dico sempre: “quando avevo otto anni”, come se prima fossi in letargo. Sono cresciuto in riva a mare, campagna e zona urbana. Sono un rivista. Ho studiato un po’ Filosofia, un po’ Paesaggio, un po’ Nuvole. Ho letto qualche libro, scritto e fatto qualche cazzata. Ora sto su Sardegnablogger. Appunto.
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