Allora l’immagine era un bianco e nero che ti faceva sognare il prima e il dopo di quel pezzo di notizia inchiodato dalla Rolleiflex sulla carta del giornale. Se la foto era bella, l’articolo era soltanto una lunga didascalia. Quando tornavo da un servizio di cronaca insieme ad Angelo Mura capitava spesso che il capo aspettasse soprattutto che Angelo finisse di stampare in camera oscura, fregandosene di me che pestavo sulla Olivetti. Perché la notizia ce l’aveva più lui di me. Io non voglio mitizzare il giornalismo da strada che Angelo mi ha insegnato, anche perché da vecchio ho fatto il docente di giornalismo cercando di fare capire a un mucchio di ragazze e ragazzi che un bravo giornalista deve avere alla spalle una robusta formazione culturale più che mille passi perduti nelle questure o nelle astanterie degli ospedali. Però forse ho un po’ esagerato per farmi capire e adesso ho nostalgia di certi insegnamenti che alla fine sono fondamentali, anche se viene un po’ male riprodurli nelle aule dell’università. Come quando ragazzino, prima di avvicinarmi esitante a un personaggio piuttosto pericoloso a cui dovevo estorcere qualche parola, mi rivolsi ad Angelo -O A’! -Emmu! -E si m’ischudi? -Tu no fuggì subidu, fatti ischudì aizu aizu, digussì la fotografia esci più megliu. -O A’! -Emmu! -La bagassa toia. E tutto finiva in una risata. Ma rimaneva la lezione. Se quel tale mi avesse picchiato la cosa più importante sarebbe stata la notizia e non il mio naso rotto. Ma di Angelo in questo momento, indietro nel tempo, non mi assale tanto il rimpianto del rude e istintivo maestro di giornalismo, quanto dell’uomo che mi ha riconciliato con la mia città, che me ne ha fatto capire il nocciolo di bellezza che nessun declino riuscirà a distruggere. Angelo abitava in via Isabelline e quando apprese che io ero nato in piazza Del Comune cominciò a trattarmi con prudente complicità. Sembrava che volesse capire se nel sangue mi era rimasto qualcosa di quei quartieri o se me ne vergognassi. A dire la verità non è che li ripudiassi ma cercavo di tenerli alle spalle. Non mi sembrava un passato interessante. Angelo parlava un italiano corretto, ma all’improvviso pretese che noi due parlassimo in sassarese. Non me l’ha mai imposto chiaramente, ma mi si rivolgeva soltanto in quella lingua e se io gli rispondevo in italiano faceva il sordo. E così, siccome tenevo ad avere con lui un buon rapporto, in poco tempo ripresi confidenza con l’idioma che da bambino parlavo con tutti i miei amici di strada e che da quando ero andato via da lì usavo saltuariamente soltanto con mio nonno. Fu Angelo, lui così pronto allo scherzo, a spiegarmi il vero significato della cionfra che noi sassaresi tanto facciamo nostra religione. Mi diceva, con parole semplici che ora purtroppo non ricordo, che se cionfra è togliere la patina di sacro a tutto il profano che ci circonda, allora va bene. Ma se vuol dire nascondere sotto una cascata di spirito allegro le prepotenze e i privilegi, allora non c’è niente da ridere. Quando citando la fonte esposi questo concetto a Leonardo Sole, che è stato uno dei più grandi intellettuali sardi, lui commentò -E perché, te ne accorgi soltanto ora che Angelo Mura è un genio? Angelo aveva due registri di umorismo. Ve li dico con altrettanti esempi da bar. Il registro di estro ludico. Al Corso quasi si fronteggiavano Murgia e Peru, due bar in storica concorrenza. Angelo era a un tavolino di Murgia dove si giocava a scopa (doveva essere ormai notte, perché Angelo ha sempre lavorato sodo da mattina a sera e aveva poco tempo per i tavolini dei bar). Accanto c’era il contenitore frigorifero pubblicitario dei gelati Motta, appena arrivato a Sassari, di cui Murgia andava fiero. Angelo cavò fuori il pacchetto delle Nazionali e lo accartocciò. Finite. Chiamò il ragazzino che serviva ai tavoli, prese degli spiccioli dal portamonete e chiese a Murgia -Signò Mu’, a lu possu mandà lu pizzinnu? Murgia, pensando che lo volesse mandare al tabacchino di Porcu, non ebbe esitazioni -Emmu. -E tandu, fammi lu piazeri, cumpareggiami un pinguino da Peru. Il registro sarcastico amaro. Alcuni ragazzini stavano cantilenando gobbule in strada davanti a un bar in cui si radunava la crema di Sassari. Angelo fotografava la scena non per conto del giornale, per il quale ancora non lavorava, ma dello studio fotografico Marras, uno dei più rinomati in città. I clienti ogni tanto uscivano e davano delle monetine ai bambini. Ma ce n’erano due che si affacciavano alla porta del bar e le monetine le buttavano in terra, per il gusto di vedere i poveri cantori inchinarsi davanti a loro. Ma tutte le monetine erano rimaste sul marciapiedi, perché nessuno dei bambini aveva rinunciato alla propria dignità di bambino povero. Angelo attirò l’attenzione di un vigile e gli disse qualcosa all’orecchio. La guardia entrò nel bar e chiese -Di chi sono quelle monete da cinque e dieci lire sparse qui di fronte? I due risero -Sono nostre. Stiamo aspettando che quei mendicanti le raccolgano. -Se non le raccogliete voi immediatamente vi metto la multa. Lo sapete che non si può buttare niente in terra? E Angelo li fotografò mentre raccoglievano le monetine, circondati dai bambini che dedicavano loro gobbule ritengo intrise di scherno. Vi racconto queste cose perché stamane ho fatto il pieno di benzina. Ero in riserva da un po’, la stavo tirando, e infine avevo paura che la macchina si fermasse. E ho avuto un ricordo vivido. C’era un grosso personaggio politico venuto in maniera improvvisa e clandestina in Sardegna. Quando il giornale lo venne a sapere voleva scoprirne i motivi. Arrivò una telefonata che lo segnalava dalle parti di Alghero. Il mio capo mi ordinò di saltare in macchina insieme ad Angelo. Ero in riserva, mi ripromettevo di fare il pieno al primo distributore, quando ci sfrecciarono davanti due auto della polizia con lampeggiatori e sirene. Angelo fece in tempo a scrutare dentro una di esse. -V’è eddu. Curri, poni fattu! Lo sapete cosa significhi stare dietro a due piloti delle volanti? Curve a cento all’ora su strade che allora non erano quelle di adesso. Alla fine in piena campagna algherese, in quel pomeriggio agostano, gli inseguiti si fermarono e un poliziotto mi venne incontro. Ci conosceva benissimo ma fece finta di niente. -Documenti. Gli diedi i miei mentre Angelo stava già ridendo perché intuiva il siparietto montato ai nostri danni. -Perché ci state seguendo da alcuni chilometri? Alla fine l’uomo politico si impietosì, scese anche lui dall’auto e accettò di parlare con me e di lasciarsi fotografare da Angelo. E così potemmo puntare verso Sassari. Ma c’era il problema della benzina. Dopo quella corsa dovevano essere rimaste poche gocce neppure nel serbatoio ma direttamente nel carburatore. C’era il rischio di restare bloccati nel niente di quella canicola. E i telefonini ancora non erano stati inventati. A un tratto, come un miraggio, vidi una stazione di servizio, rallentai, chiusa. E Angelo mi gridò -Fuggi, fuggi, chi si la macchina piglia lu fiaggu no si mobi più. E questa attribuzione di istinti animali alla mia macchina era di un ingegno superiore. Ma la maggiore prova della refrattarietà di Angelo alla suggestione di qualsiasi autorità la ebbi in occasione della visita a Sassari di Luciano Pavarotti. Era un uomo di cui affascinavano la grande cortesia e disponibilità. Attirava la folla ma si vedeva anche che ne era attirato e per rispondere a un’acclamazione dalla strada tralasciava ogni cosa. Uno simpatico, quindi, che instaurò un ottimo rapporto con Angelo. Il quale aveva precisa disposizione di trattenersi a teatro sino alla fine del concerto per fotografarlo anche mentre ringraziava il pubblico del Verdi con il suo foulard di Hermes. Il problema fu che alla fine dei brani in programma, Pavarotti cominciò a concedere bis. Era tardi, Angelo aveva già sulle spalle una quindicina di ore di lavoro e aveva voglia di tornare al giornale, stampare le foto e andarsene a casa per dormire. E un primo bis -Ma no abia finidu? E un secondo bis -Torra? E al terzo bis Angelo, dal nostro angolino nelle quinte, fissò fremente il più grande tenore del mondo -Mì, si m’abussia fattu una cantada alla bossa manna di li cuglioni. E il giornalista grafico della Nuova, che anche lui in quanto a spirito geniale non scherza, appresa la notizia compose solo per gli intimi un programma di sala dove figuravano Pavarotti con il foulard in mano e il titolo “Cantata alla borsa grande dei coglioni del sig. Angelo Mura”. Non so che fine abbia fatto quel cartoncino. Ad Angelo era piaciuto molto. E quindi ora potrebbe essere tra le sue cose, se qualcuno le ha conservate, tra mille foto e mille sorrisi.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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