Passo in largo Casalabria. Dice: “largo”. Largo è quando il letto dove scorre una “stretta” non trova più le sponde di vecchie case e si allarga in un’ansa che se le dici piazzetta è troppo ma via è poco. E allora la toponomastica si inventa largo. Anzi, non si inventa niente perché il popolo, da quando esistono, i larghi li chiama così. E passo in largo Casalabria e mi fermo davanti a quel fronteggiarsi sbilenco di case e balconi e portoni sino a formare l’illusione di un cortile, dove un mucchio di anni fa, passeggiando con Giampiero Cubeddu, mi si accese una lampadina solitamente fulminata e gli dissi
-Giampiè, stai cercando un set naturale per Lu Patiu? Eccolo!
Quanto gli piacque! Mi volle con sé alla prima, al suo fianco per tutta la commedia (la foto qui sopra che pubblico impudico).
Passo ancora, adesso, in largo Casalabria e me ne vado perché da quelle parti se vedono uno che fissa da un quarto d’ora un cortile tra le case vecchie, c’è il rischio che lo prendono per un poliziotto o comunque per uno che non si fa i cazzi suoi. E però la macchina del tempo si è già messa in moto e mi tira fuori un articolo su Giampiero che avevo pubblicato da qualche parte dopo la sua morte e da cui ora pesco qualche ricordo vecchio per questo ricordo nuovo.
Il top fu una sera del secolo scorso, nei tardi anni Settanta, al teatro Civico. Si rappresentava “Farendi in Turritana”, che all’epoca era vecchia già di sessant’anni, ma ancora la conoscevano in pochi. E si arrivò allo scambio di battute, ora arcinoto, tra Antoni e l’Agente di Questura.
Antoni – E’ chisso che li sono dizendo! Paj l’ora era morto tardo… e noi eramo drumiti che poschi…
Agente – Badate: questa è una cosa di capitale importanza!
Antoni – Cabidali e tramazza, sissignora! O cosa credete, lei, che dromiami a coste a terra.
Venne giù il teatro dagli applausi.
Un pensionato della prefettura che aveva trascorso le poche ferie della sua carriera e speso i suoi pochi soldi nell’inseguire in tutta Italia i grandi eventi teatrali, il giorno dopo fermò per la strada il regista Giampiero Cubeddu: “Senta, Cubeddu: io ebbi la fortuna di vedere a Roma Filumena Marturano. Ma quella vera, quella con Titina. Ebbene (Cubeddu mi raccontò che a questo punto l’anziano signore sollevò l’indice e impostò la voce alla Ruggero Ruggeri), ieri quella storia del cabidali e tramazza mi ha dato la stessa emozione che mi diede Titina tanti anni fa mormorando: Dummì, sto chiagnendo… e comm’è bell’chiagnere!”.
Quando Giampiero mi confidò questo aneddoto, persi purtroppo l’occasione di tacere
-Ma, Giampiero, non mi sembra significativo che un vecchio rincoglionito paragoni Battista Ardau Cannas a Eduardo De Filippo
Era persona gentile ed educata, Giampiero, e si limitò a esprimere solo con gli occhi il concetto “Non capisci un cazzo”. Mi spiegò invece pazientemente che un fatto del genere era il vero sdoganamento del teatro sassarese
-E’ una questione di emozioni, capisci. Quel signore non era un professionista, un critico, ma era uno che era andato a teatro per tutta la vita. E paragonava l’emozione comica del giorno prima a quella drammatica provata da giovane al finale di Filumena Marturano, uno dei momenti più alti del teatro italiano. Lo sappiamo tutti che sono cose diverse, ma entrambe suscitano sentimenti forti e quindi hanno entrambe dignità, entrambe rappresentano ciò che siamo: come individui e come gente.
Già: gente. Popolo che ha in comune una lingua, una cultura. Etnia, in una parola. Ed era il teatro di etnia quello che Cubeddu voleva fare, usando il quale – per la prima volta da molti anni fino a quel momento – riempì con la prosa i teatri di Sassari: non soltanto il piccolo Civico, ma talvolta anche i mille posti del Verdi. Il fenomeno del grande successo del teatro in sassarese, che dura ancora senza particolari segnali di crisi, ebbe inizio in quegli anni da una delle infinite intuizioni di questo geniale regista e instancabile operatore culturale. Sino al giorno prima di morire, Cubeddu era disposto a parlare di tutto e a spiegarti tutto, dalla gobbula a quanto sia difficile ed entusiasmante allestire un’operina buffa del Settecento. Ma se gli chiedevi della Compagnia Teatro Sassari gli si allargava il sorriso, si vedeva che ti stava parlando di casa sua. Con la sua professionalità riusciva a nobilitare tutto. Quindi quando mise mano, a esempio, a “Farendi in Turritana” ne fece un capolavoro dell’etnia. Dice: ma perché, non nasce tale? Non proprio. E’ una commedia divertente, ha una sua nobiltà letteraria, descrive piuttosto bene lo spirito della Sassari della prima metà del Novecento (pur essendo stata scritta da un cagliaritano), ma vorrebbe avere il climax della comicità nell’espediente poco nobile dell’ “italiano porcheddino”. Cioè la lingua storpiata dal dialetto, presentato quindi come una lingua degli ignoranti, un’esagerazione diffusa più nelle barzellette che nella realtà. A Sassari, infatti, come in tutta la Sardegna, la tendenza in ogni ceto è sempre stata quella di tenere bene distinte la lingua italiana dalle parlate locali. E chi non era in grado di esprimersi almeno a un livello accettabile nella lingua nazionale, in genere non si avventurava in ridicole commistioni e preferiva usare dignitosamente l’idioma che conosceva meglio. L’italiano porcheddino era quindi in gran parte l’invenzione di una certa aristocrazia culturale per prendere in giro la povera gente. Un espediente comico superficiale e poco gradito sia dal popolo, che non vi si riconosceva, sia dalla critica. Ma con la sapiente regia di Cubeddu anche questo “umorismo classista” venne inserito in un contesto genuinamente etnico che indusse a ridere persino degli strafalcioni di un poveretto. Per intenderci: se una barzelletta sugli ebrei me la racconta uno con la testa rasata e una svastica tatuata, la cosa mi fa schifo. Se me la racconta un ebreo, mi fa ridere. Ecco quindi l’operazione di Cubeddu: prese il teatro popolareggiante – quello che tenta di imitare il teatro popolare ma che ne mutua soltanto la rozzezza e non la genuinità – e ne fece teatro popolare.
L’aspetto negativo fu che quando si scoprì che il teatro in sassarese faceva il tutto esaurito, ci fu l’assalto alla diligenza. Non tutti capirono che si trattava di un’operazione estremamente difficile. Inutilmente Leonardo Sole, forse il più grande studioso sardo di teatro etnico (e a sua volta drammaturgo), ammoniva a non cadere nei trabocchetti del vernacolo più volgare, della visione arcadica di un passato che invece era fatto anche di ingiustizie e sofferenze. Alcune delle compagnie capirono il messaggio di Cubeddu e i motivi veri del suo successo. E fecero teatro di livello.
Altre si ripararono sotto l’ombrello della lingua per rispolverare i luoghi comuni dell’impiccababbu e del magnacauri. Per farlo ridere, si toccava la pancia del pubblico, anziché la testa.
Il populismo non è un fenomeno recente e non funziona solo in politica.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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