Esattamente un anno fa dedicai questa rubrica a Iqbal Masih, il bambino pakistano ucciso in circostanze ancora non chiare il 16 aprile del 1995. Iqbal, per chi non lo ricorda, era un bambino schiavo che era riuscito a denunciare al mondo i soprusi di cui sono vittima, ogni giorno, milioni di suoi coetanei.
Il fenomeno dei bambini schiavi è particolarmente grave in alcuni paesi africani dell’area subsahariana, in Pakistan, in Colombia, in Brasile, in Bangladesh, in India. Ma non esiste paese del mondo in cui il problema non sia presente. Secondo ISTAT in Italia ne sono vittima alcune decine di migliaia di bambini sotto i 14 anni (erano 140.000 nel 2001). Il fenomeno, di per sé brutale se anche fosse limitato alla sola costrizione lavorativa, assume contorni diabolici se si pensa alle condizioni di violenza, malnutrizione e pericolo di menomazioni e malattie cui i piccoli schiavi vanno incontro.
Leggendo alcuni resoconti sul fenomeno mi sono imbattuto in una storia che non conoscevo e che mi ha lasciato di stucco, quella dei Verdingkinder, i “bambini appaltati”. Si tratta di piccoli schiavi che, fino agli Anni Ottanta del secolo scorso, cioè fino a una trentina di anni fa, in Svizzera, venivano strappati alle loro famiglie e assegnati ad altre famiglie, da cui venivano costretti a lavorare senza tutele e senza garanzie circa l’istruzione. Ancora oggi la società elvetica non riesce a trovare strumenti legislativi per risarcire adeguatamente le migliaia di persone, ormai adulte, a cui una pratica tanto primitiva quanto radicata ha devastato l’infanzia e la vita.
Iqbal Masih, alla cui memoria la presente rubrica è indegnamente dedicata, parlando a Stoccolma nel 1994, ad una conferenza internazionale sul lavoro, disse una cosa tanto semplice quanto irraggiungibile: «Nessun bambino dovrebbe impugnare mai uno strumento di lavoro. Gli unici strumenti di lavoro che un bambino dovrebbe tenere in mano sono penne e matite».
Aveva 11 anni.
L’anno successivo, il 16 aprile, moriva assassinato.
Nacqui dopopranzo, un martedì. Dovevo chiamarmi Sonia (non c’erano ecografi) o Mirko. Mi chiamo Luca. Dubito che, fossi femmina, mi chiamerei Sonia. A otto anni è successo qualcosa. Quando racconto dico sempre: “quando avevo otto anni”, come se prima fossi in letargo. Sono cresciuto in riva a mare, campagna e zona urbana. Sono un rivista. Ho studiato un po’ Filosofia, un po’ Paesaggio, un po’ Nuvole. Ho letto qualche libro, scritto e fatto qualche cazzata. Ora sto su Sardegnablogger. Appunto.
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