Si gioca con le parole, come al solito, ed è una pratica nella quale mi diverto spesso, sin da quando ero piccolo.
E sinché si gioca giusto per il gusto del ludico, ben vengano anche i giochi di parole, le sciarade e gli anagrammi, gli indovinelli e le catene, tutta roba che fa sicuramente bene all’allenamento mentale ed intellettivo. Ma se a giocare con le parole sono persone le cui frasi possono essere premonitrici o conseguenza di azioni che riguardano tutti noi, la nostra esistenza e la nostra condizione, beh, allora bisognerebbe fare molta, davvero molta attenzione.
In questa Italia, patria di grandi Maestri della parola sin dai tempi di Lucrezio, Catullo e Cicerone, a giocare pericolosamente con le parole travisandone o trasformandone spesso il significato, sono stati sempre di sicuro i politici e i potenti insieme a quei letterati che, a servizio di questi, l’hanno usata, distorta per mentire o nascondere la verità. Compito che oggi tocca ai giornalisti e agli storici, ma i mandanti restano gli stessi. Con la parola si incantano le genti, attraverso i media la si divulga essendo certi che questa arriverà a buona parte della massa che poi la di-vulgherà anche a chi, da quei media, difficilmente è raggiunto. La vulgata poi è ancora più potente della parola stessa, vox populi, fa presto a diventare mito e realtà anche la menzogna più grossa, se passata di bocca in bocca fra comuni mortali, specie laddove l’ignoranza e la malafede imperano. Oggi si aggiunge anche l’indifferenza insofferente di quanti, delusi proprio da tante menzogne e da un reiterato ed insistente abuso della parola, finiscono col non credere più a niente.
Chi ha il potere di dare concretezza alle sue parole, di farle diventare Legge, ha un potere immenso, dovrebbe quindi pesarle, sceglierle ed usarle attentamente, in modo semplice e diretto una per una ma dovrebbe soprattutto dare a quelle parole poi l’esatta corrispondenza nei fatti e nelle azioni che ne conseguono. Ma anche chi quelle parole ascolta, non dovrebbe mai farsi trovare impreparato a riceverle e a capirle. Dovrebbe essere la normalità di qualunque paese civile, ed invece pare fantascienza.
E così, una personalità come la Presidente della Camera dei Deputati, Laura Boldrini, reduce da una visita in terra sarda che ha scatenato altri fiumi di parole e di vulgate spesso anche di dubbio gusto, ha usato parole delle quali bisognerebbe pesare significati ed effetti con strumenti adatti, lasciando da parte, alla loro dimensione reale quanto banale, i piccoli lapsus (intenzionali o meno non sta a me dirlo, non ne ho facoltà e non gliele ho sentite pronunciare vedendola in faccia, quelle parole su Eleonora d’Arborea “sindachessa” e non “giudichessa regnante”).
Una di queste è la parola “autonomia”, ripresa poi anche dal Presidente Pigliaru la cui conclusione del discorso pare riportare il tutto sul politichese più stretto e marcato della continua elemosina, richiamando alla responsabilità delle parti, Stato/Regione, ma restando dentro gli attuali confini, sempre più stretti, di quella parola, “autonomia”, che vuole dire tutto e non dice nulla, non sino ad oggi. Che autonomia è, se sei costretto a chiedere più potere decisionale? O sei autonomo, in tutto e per tutto, oppure sei suddito, dipendente. E la Sardegna davvero autonoma non lo è mai stata, dal momento che di decisioni e regole fiscali, di sviluppo e di programmazione integralmente “autonome” non ne ha mai avute, non ne mai potute esprimere realmente e completamente.
Come si può parlare, promettere “maggiore autonomia” -e qui ritorno al discorso della Presidente Boldrini- come se questa possa essere estesa o limitata come per una banalissima batteria? Un’entità autonoma autonomamente decide, se le decisioni le subisce, allora parliamo d’altro, se l’autonomia deve chiederla, deve chiederne altra ancora, allora significa che non ce l’ha, semplice e lineare!
Non ci si può venire a dire, ogni volta, “avrete più autonomia”, se poi quella autonomia, per quanto “speciale”, “particolare” o “ordinaria” che sia, è puntualmente decisa altrove, altrove si stabilisce quanta e come la dobbiamo avere, come la dobbiamo gestire ed amministrare. Ed anche se per certe questioni, probabilmente e visti gli elementi che al potere si succedono in questa disgraziata isola, è stato sinora forse un bene più che un male non averla avuta in molti casi, quell’autonomia “piena e compiuta”, le visite e discorsi come quelli di questi giorni, compreso tutto il corollario di commenti intorno, sembrano ancora una volta avere lo stesso peso e la stessa sostanza di mille altre visite e discorsi, di mille altre promesse e sorrisi visti in tutti questi anni di per niente speciale e per niente autonoma autonomia. Cosa ci resta quindi, a conti fatti, di questa recente tre giorni di gita istituzionale?
Fuffa! Direbbe la simpatica amica e collega Maria Dore, e fuffa resta.
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