Lo sapeva che non era una pantera. Anathi aveva studiato. Aveva imparato le ruote della logica, a scuola, e se doveva pensare le faceva girare come quelle foglie dal picciolo pesante che quando si staccano dal ramo sembrano girandole vorticose piuttosto che barchette cullate dai refoli. Anathi pensò molto quando all’alba, tirato il freno sul dirupo accanto al suo ovile, appena aperta la portiera del fuoristrada fu preso da un odore improvviso di sterco e di sangue. Non poteva essere la pantera. Le bestie squartate, chissà quante, qualcuna con la testa staccata, carcasse che ancora stillavano umori, visceri e mammelle che sino a ieri erano tese di latte sparse a brandelli sul piazzale, ma anche lontano, sui cespugli, persino sui rami più bassi del leccio, e una testa dai ciuffi bianchi, mezza spalla attaccata, che lo fissava con occhi di paura. Ma le pecore, si diceva Anathi nei suoi turbinosi pensieri, hanno sempre occhi di paura, anche quando mangiano o allattano. Quello non era un indizio. Fece i conti. Quattromila euro, più o meno. Le sue erano bestie care. Un quarto del prestito della Cassa di Credito Agrario. Un quarto del suo lavoro d’ora in poi sarebbe servito per ripagare alla banca quei pezzi di intestino e quelle teste morte con gli occhi uguali a quando erano vive. Ma la pantera nera è una cacciatrice non un macellatore, qualunque cosa dicessero gli altri pastori. Dove aveva mai letto, o sentito, di pantere e di tigri e di orsi e di coccodrilli che massacrano il gregge? Quando hanno fame ne prendono una, di pecora, se la portano dove stanno più tranquilli e se la mangiano in santa pace. “In tutto il creato siamo solo noi che abbiamo il gusto del sangue”, si diceva Anathi, che voglia di fare filosofia non ne aveva ma di scoprire chi gli aveva ammazzato le pecore, quella sì. E i pensieri turbinosi si univano in un torrente che lambiva offese recenti, si aggirava intorno a torti e parole mancate, scavava la terra che copriva vecchie faide familiari. E collegava infine, quel fiume di pensieri, fatti e parole in una pista di pallottole e coltellate che univa il suo gregge massacrato a quelli degli altri pastori colpiti dalla pantera. Doveva esserci una logica, questa logica, pensava Anathi mentre contava le pecore vive per capire esattamente quanto erano quelle morte, perché a contare carcasse così ridotte c’era di che sbagliarsi.
Al ritorno in paese diede la notizia prima al padre e poi a quelli del bar. Raccontò la strage e molti si misero sulle auto e corsero all’ovile della famiglia di Anathi per vedere le nuove vittime della pantera. Anathi rientrò a casa e girava per le stanze lasciando una scia di pensieri ben più densa di quella che avrebbero dovuto lasciare solo i quattromila euro persi. Allora il vecchio Nyame, che conosceva benel suo figlio, lo fece sedere al tavolo di camera da pranzo, gli porse un bicchierino della nuova bottiglia di filu e ferru e si limitò a guardarlo con una domanda negli occhi. Anathi gustò con attenzione il liquore rotolandoselo sopra e sotto la lingua, rimandandolo in infiniti va e vieni dalla gola al palato, fino a che non lo inghiottì facendo al padre un gesto di assenso. “E’ buono”. E siccome negli occhi di Nyame la domanda non si era ancora spenta, continuò: “Ma tu alla pantera nera ci credi?” “E cosa vuoi che sia, figlio mio? Da noi bestie che ammazzano così non ce ne sono mai state. Sarà scappata a qualcuno no giustu de cherveddhu a tenersela in casa. E poi l’hanno anche vista”. “Se è per questo anche Donna Ate vedeva ogni mattina a messa il marito morto”. “Ma quelli che hanno visto la pantera non sono pazzi come la povera Ate”. “Però tutti quelli che hanno avuto le pecore fatte a pezzi sono bene o male toccati dalla faida di Sicharbas”.
Nyame impallidì e strinse i denti sino a farsi male. Quel nome a casa sua non si era mai fatto, l’antico terrore, la vera bestia di quel pezzo di isola: molte famiglie in tanti paesi, e non solo a Sicharbas, avevano assassini e assassinati. Lui stesso da ragazzo aveva sparato e aveva ferito, spinto da un ordine muto di sua madre. E ancora ogni notte ringraziava Nostro Signore perché quell’altro se l’era scampata. Ma Sicharbas ora era un fantasma abbandonato con le finestre delle case inchiodate e le porte murate e gli altri paesi colpiti a poco a poco stavano dimenticando. La bestia ora dormiva da tanti anni. “Ma cosa dici, cosa c’entra quella … faccenda? Tu non devi neppure nominarla, neppure pensarla. E’ finita”. “Prova a pensarci, invece, babbo. Metti tutti i nomi in fila, tutti i paesi. Ne mancavano sino a ieri soltanto due: Sicharbas, che però ormai è morto, e il nostro paese, cioè noi”. Nyame rabbrividì: “E tutti sono stati colpiti due volte”. “Già”. “Cosa vuoi fare, Anathi?”. “Per ora andare alla corriera a prendere Mefdet. Poi forse domani vado dai carabinieri. Ci penserò stanotte”. Nyame chinò il capo, non gli ordinò neppure di stare lontano dai carabinieri, come avrebbe fatto soltanto il giorno prima: “Salutami Mefdet, dille che le voglio bene e che tua madre quando si è sentita morire ha rimpianto soltanto di non potere vedervi sposati”. “Lo sa già, babbo”. “E tu ridiglielo. Io a tua madre che era la colomba della vita mia gliel’ho detto ogni giorno, da quando mi sono dichiarato sino all’ultimo che lei ha respirato”. Anathi sorrise e strinse la mano con cui Nyame teneva il bicchierino. “L’ultimo, per oggi, babbo!”. “Ormai gli ordini li dai tu”. Quando arrivò alla piazza, la corriera era già ripartita e Mefdet, poggiati sulle pietre del selciato lo zainetto con i libri e il trolley con la roba da lavare, si guardava intorno stupita. Quando lo vide sorrise e si lasciò abbracciare a lungo, incuranti tutti i due dei fischi clamorosi degli amici di Anathi seduti al bar. “Dov’eri? Ogni volta sei sempre stato qui a aspettarmi alla fermata. Mi sono preoccupata”. Quanto era bella, Mefdet. Un pareo, poco più che un pareo con un nodo sul seno come tutto vestito, un paio di sandali e quegli occhiali che andavano e venivano, che si levava se si dovevano baciare, che si rimetteva quando qualcuno la salutava e lei non lo riconosceva e che si ritoglieva se si accorgeva che lui la stava guardando innamorato, perché un pochino si vergognava della sua miopia. E allora lui glieli poggiava a forza sul naso e gli copriva il viso di baci, sporcandole le lenti. La accompagnò a casa ma non entrò: “Oggi non ho voglia di fare complimenti con i tuoi. Ti aspetto fuori. Poi ti racconto. Fai presto, ti prego”. “Solo una doccia per lavarmi via la corriera. Vengo subito”. Mefdet aveva le chiavi della villa dei Morisco, fuori dal paese, vuota d’estate. A notte, al momento di andare via, Anathi la abbracciò ancora: “Io non sopporto più queste tue partenze. Mi manchi”. “Anche tu. Ma pensa che ora vado solo a dare gli esami. In due giorni vado e torno. Prima stavo via per mesi. E appena mi laureo, se vuoi…” “Ti trovi un lavoro”, concluse serio Anathi. “Stronzo!”, disse lei con una smorfia un po’ broncio e un po’ sorriso. “Perché, cos’altro succede quando ti laurei – chiese lui – Che finalmente vivremo insieme?”. Lei tirò fuori mezzo palmo di lingua, lui l’abbracciò e un’ora dopo si accorsero che adesso era davvero tardi. Mentre rifacevano il lettone dei Morisco, Anathi le disse del gregge. “La pantera?”. “Io non ci credo”. E le raccontò tutto. “Se è vero stanne lontano. E’ un mondo che non ti appartiene. Andiamo via”. “Sai che non posso”. “Vieni via con me. Domani quando riparto vieni con me in città e non torniamo più”. “Amore, e di che cosa campiamo? Il mio lavoro è qui”. “E allora vai dai carabinieri. E non uscire mai solo e di notte”. “Dai carabinieri ci vado domani, ma di notte dovrò uscire appena tu riparti”. “Cosa vuoi dire?”. “Che tenteranno di colpire un’altra volta e qualcuno dovrà proteggere il gregge”. “E allora paga un servo pastore, ma tu non ti esporre”. “Mefdet, non sono cose per cui si paga. Uno se le deve fare da solo”. Mefdet lo guardò attonita poi pianse sino a consumarsi. Non riusciva a parlare, i singhiozzi le toglievano il fiato. Soltanto l’alba le regalò un po’ di calma e rispose al telefonino che squillava da ore: “Sì, mamma… Scusa… No, sto bene, arrivo subito… poi ti spiego”. “Cosa le spieghi? Che abbiamo fatto l’amore tutta la notte e poi ti ho fatto piangere?” “Anathi, non ho voglia di scherzare. Tu la notte stai a casa! E appena è possibile ce ne andiamo via da questo paese”. La mattina Anathi andò dai carabinieri e seppe che il maresciallo era via per qualche giorno. C’era il brigadiere, un ragazzo del Continente che ancora non conosceva nessuno ma che non era stupido: “Su queste cose si muoverà meglio il maresciallo. Ma, scusi, lei ha per caso intenzione di fare qualche sciocchezza?”. “Cioè?”. “Che so? Esporsi in qualche modo. Se lei avesse ragione, se non ci fosse nessuna pantera, il gioco sarebbe molto pericoloso e sarebbe meglio che lo lasciasse giocare a noi”. “Non so di che cosa lei parli, brigadiere”. “Di preciso non lo so neanche io. Ma mi dia retta, aspetti che torni il maresciallo”. Anathi preferì tacere perché temeva che con qualche scusa il brigadiere sequestrasse i due fucili di casa e senza un’arma non avrebbe potuto fare niente. Nel pomeriggio accompagnò Mefdet alla corriera. Era pallida e dietro le lenti aveva gli occhi gonfi e lucidi. Aveva tirato i capelli all’indietro quasi sino a strapparli dalla fronte, il viso era un ovale perfetto , le labbra due petali. “Ti prego, non partire”. “Io, ti prego: non fare lo stupido. Stattene a casa stanotte e le altre notti sino a che non torno”. “Te l’ho già promesso, aspetterò il maresciallo”. “Tu aspetta me, poi vedrai che una soluzione la troviamo”. La sera, appena fatto buio, a Nyame sembrò di sentire il motore del fuoristrada. Spense il televisore, corse sino al ripostiglio, aprì l’armadio e vide che c’era solo un fucile. Allora si sedette al tavolo della camera da pranzo e cominciò ad aspettare. Anathi lasciò il fuoristrada a un chilometro dall’ovile. Percorse la vecchia carrareccia invasa dalla macchia che usavano suo nonno e Nyame quando era ragazzo. Arrivò all’ovile dalla parte del leccio, senza attraversare il piazzale, caricò il fucile e si distese a pancia in giù sotto l’albero. Era passata mezzanotte quando le nuvole cominciarono a coprire la luna e dal mare arrivò il vento. Le fronde del leccio stormivano, le pecore si agitavano nel recinto, qualcuna belava, le raffiche di maestrale passavano tra i cespugli come ululati di cane e in questo clamore Anathi teneva l’orecchio teso per distinguere il rombo di un motore o un calpestio di uomo. Fu allora che sentì sopra di sé un rumore che non era di vento. Sentì aggricciare la pelle del collo, balzò in piedi, puntò il fucile verso il buio della fronda del leccio e quando all’improvviso la luna riuscì a liberarsi dell’ultima nuvola, la vide. Era bellissima, come sempre. Quando si accorse che lui la guardava, si tolse gli occhiali e li posò su un ramo. “Amore mio, perché non mi hai obbedito?”. “Fai ciò che devi fare, amore mio”, le rispose lui lasciando cadere il fucile. Allora gli occhi le divennero gialli, i muscoli guizzarono sotto il manto nero, il sorriso triste scoprì le sue zanne candide, balzò e l’ultimo loro bacio ebbe sapore di sangue.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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