Ieri pomeriggio l’Amerigo Vespucci ha toccato terra a La Maddalena. L’unità, varata nel 1931, è considerata una delle più belle navi a vela in circolazione. È una nave-scuola, impiegata per addestrare alla navigazione gli allievi delle forze armate italiane, a cominciare ovviamente da quelli della Marina. Ha una sorella più piccola, il Palinuro, di un paio d’anni più giovane e, secondo i velisti locali, più elegante e adatta a navigare a vela.
Il Vespucci era già stato a La Maddalena 43 anni fa, quando di anni ne aveva solo 43. All’epoca non esisteva Facebook e le poche foto scattate non riescono a fare capolino tra le centinaia che da ieri invadono le bacheche di molti dei miei contatti.
In una di queste bacheche si è sviluppato a un certo punto un dialogo sulla vera natura di questo oggetto meraviglioso dell’Ars navigandi. Qualcuno ha scritto che se Vespucci e Palinuro sono le benvenute, la portaerei Cavour non lo è. Qualcuno ha allora ricordato che l’isola di Santo Stefano verrà attrezzata per ospitare altri gioielli della tecnologia navale italiana, decisamente più moderni e aggressivi, a cominciare proprio dall’ammiraglia della flotta italiana. Si dice che appena la banchina sarà pronta, lei e altre navi faranno scalo nell’isola per caricare e scaricare armamenti, provenienti o destinati ai bunker-galleria che la Difesa realizzò negli anni 80. Qualcuno ha obiettato: perchè no? Altri ancora hanno ricordato che Vespucci e Cavour “sono della stessa famiglia – la marina militare italiana. Una vestita a festa l’altra in abiti da lavoro“. È emersa l’idea, decisamente e consapevolmente nimby, che le navi a vela ci arricchiscono mentre il maneggiare armamenti sotto il naso ci toglie qualcosa. Poi il dibattito si è arenato, perchè in effetti sono voci, qualcuno smentisce, qualcuno incalza, ma alla fine si continua a parlar d’altro.
A me l’idea del traffico di armi a casa mia non piace per nulla (ne scrissi qui), ma credo sia una pretesa eccessiva volersi estraniare dai destini che ci derivano dall’essere Stato e Nazione. Direi di più, i destini che ci derivano dall’essere Comunità internazionale, invischiati senza rimedio in quell’intreccio di interessi, appetiti, pretese, guerre, migrazioni, violazione di diritti, tenori di vita insostenibili, innalzamenti di temperature, medicalizzazioni dell’esistenza, vulgate scientifiche, trionfali, anzi magnifiche previsioni socio economiche e progressive. Siamo sulla barca (bellissima) e ci tocca navigare, siamo in ballo, e ci tocca di ballare. Produciamo e vendiamo armi, sosteniamo improbabili primavere siriane (solo nel weekend ci rilassiamo e prendiamo per il culo i catalani), respingiamo gli ultimissimi del mondo, ormai prima ancora che prendano il mare, chiedendo agli amici libici di pensarci loro. E non vogliamo neanche il piccolo promemoria rappresentato dal passaggio di qualche cassetta di proiettili dalle nostre isole alle nostre navi? Perché? Cosa ci fa pensare di poterne fare a meno? Cosa ci spinge ad abbracciare e desiderare per noi un destino il più possibile istituzionale, turistico ed estetico, lasciando ad altri l’assetto di guerra? Cosa ci induce a ritenerci assolti? Mi sa che siamo coinvolti. Mi sa.
Nacqui dopopranzo, un martedì. Dovevo chiamarmi Sonia (non c’erano ecografi) o Mirko. Mi chiamo Luca. Dubito che, fossi femmina, mi chiamerei Sonia. A otto anni è successo qualcosa. Quando racconto dico sempre: “quando avevo otto anni”, come se prima fossi in letargo. Sono cresciuto in riva a mare, campagna e zona urbana. Sono un rivista. Ho studiato un po’ Filosofia, un po’ Paesaggio, un po’ Nuvole. Ho letto qualche libro, scritto e fatto qualche cazzata. Ora sto su Sardegnablogger. Appunto.
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