E vicino alla redazione c’era questo bar Capra, che si chiamava così ma l’insegna era un’altra. Panini buoni alla nostalgia, fantastiche bevande, amici gentili non padroni o camerieri e soprattutto incontri belli: oggi mi porta qui la macchina del tempo. E mi ritrovo con i gomiti sul bancone accanto a Ginetto Ruzzetta. Non sapete chi era? Ok, allora cambiate programma. Su SardegnaBlogger troverete un mucchio e mezzo di altra roba più interessante. Stanotte ho voglia di parlare soltanto a quelli che quando sentono quel nome cominciano a sognare, quelli che i Candelieri sono una cosa che se ne fotte anche dell’albero di Natale. Questo viaggio della macchina del tempo parte dagli ultimi giorni di un 2016 che ha mandato a Caramasciu roba tipo Prince, Bowie, Emerson, Cohen e sino alla fine si sta divertendo con Parfitt e George Michael. Insomma, da andare subito in braghetta a scopo apotropaico se soltanto sai fare alla chitarra i tre accordi della bambolina che fa no no no no. E un po’ per pigliarmi per il culo e un po’ sul serio mi sono ricordato di quel 2012 che si portò via Ginetto Ruzzetta e allora la macchina del tempo, brummm brummm brummm (fa così, quando si mette in moto), mi porta non al 2012 ma più indietro, tipo anni Ottanta da Capra. Il bar Capra era a due passi dalla Nuova quando la Nuova era ancora dentro Sassari. E siccome La Nuova era un lavoro che alle volte, con un po’ di sfiga, aveva un arco di impegno giornaliero che poteva andare anche sulle quattordici ore, avere vicino un bar dove staccare un quarto d’ora era cosa che ti salvava la vita. E allora un primo pomeriggio d’estate un collega e io varcammo la soglia del bar Capra. Fuori c’era aria tipo après-midi d’un faune, molto impressionista, appunto: clima caldo e lubrico, placidamente delirante, con tutta la sensualità di Mallarmé e il dolce caos ordinato delle dissonanze di Debussy. Cioè non avevamo voglia di fare un cazzo. Dentro il bar, tra i mille generi di avventori che vi si avvicendavano (dai colleghi giornalisti ai professori delle vicine facoltà scientifiche e gli operai dei numerosi cantieri di manutenzione stradale che in quell’epoca ancora ricca costellavano la città), trovammo l’ambiance che preferivamo, quello del popolo di Platamona. Voi non lo sapete cos’era il popolo di Platamona. Immaginatevi gente con i pantaloni corti bianchi sopra il ginocchio un po’ stretti sul culo con la piega fatta con il ferro da stiro e maglietta a maniche corte a righe. E colletto abbassato. Erano ancora tempi che se uno per un incidente di vestizione usciva con il colletto sollevato, qualcun altro gli diceva: “Baro’, accunzadi chissu cullettu”. E lui rigraziava mentre si aggiustava il colletto. Bei tempi. E ci siamo capiti! Il popolo di Platamona passava più tempo a Sassari che a Platamona. A Sassari completava in lunghi giri gli acquisti di roba da portare al mare. Soprattutto la birra. Con il mio collega spesso vedevamo un noto signore che partiva in moto dal bar tra le raccomandazioni degli astanti e gli inviti alla prudenza con due cassette di Ichnusa o di Peroni (c’erano due partiti rivali che altro che Sì o No, ma di questo vi parlerò un’altra volta), una sopra l’altra, sulla pedana del Vespone che ondeggiava. E la preoccupazione non era per la sua incolumità. Insomma, quel pomeriggio il bar era quasi deserto, però in un angolo c’era questo popolo di Platamona che armava un palamito arrotolato in una enorme bacinella celeste. Non pensiate che quelli di Platamona praticassero con successo la pesca professionale. Più che altro con serietà organizzavano la sistemazione del palamito e parlavano dei soldi che avrebbero guadagnato vendendo il pescato al mercato. Poi salivano sulle barche e si dirigevano al largo con ami e boe. Di solito partivano già ubriachi, ma comunque a meno di un miglio dalla costa erano già abbastanza fatti per buttare in acqua piombi, corda e ami senza attaccarli ai galleggianti. Quando si accorgevano che qualcosa non funzionava, buttavano a mare anche i galleggianti e se ne tornavano in spiaggia perché la birra a bordo era finita. Alle volte era finito anche il gasolio e scarrocciavano cantando sino a Porto Torres, dove venivano soccorsi dai bainzini che li rifocillavano e li pigliavano per il culo. Insomma, trovammo il popolo di Platamona e allora con il mio collega ci mettemmo a sorseggiare il caffè piano piano, per goderci i discorsi dai vicini tavolini senza dare a vedere che ci facevamo i cazzi degli altri E ti arrivavano questi scampoli di frasi. -Ma abà mi dumandeggiu eu: cu tutti li crasthi chi crescini in Sardhigna parchì li cumparemu in Cuntinenti? Alludendo probabilmente alla crisi delle cave di granito. Oppure. -Candu ani appiccadu a Mussolini a cabbu a giossu, dalla busciaccara no è faraddu mancu un citu. -Digussì unesthu era? -No, avverumeiu la dì prima era azzadu lu presgiu di lu casinu. Battute vecchie come il cucco ma che a noi due in quel contesto ci facevano morire. A un certo punto si sente un rauco “e bongiorno!” e Ginetto Ruzzetta in persona entra nel locale. Ora voi dovete capire che per il popolo di Platamona al bar Capra se entra Ginetto Ruzzetta è come se al bar del foyer della Scala entra Giuseppe Verdi. Lui si guarda intorno, vede il popolo in un angolo che ancora non si è accorto di lui e ha un attimo di esitazione, sembra che voglia uscire. Poi scuote le spalle, avanza verso il bancone e vede anche il mio collega e me. Ci conosciamo, ottimi rapporti, reciproco rispetto, lui poi è tipo che con i giornalisti e gente così ha la debolezza di mostrarsi persino un po’ più signore dell’usato, per rimarcare che il clima da bettola non è che sia una sua marca artistica ed esistenziale. Però stranamente si limita a un cenno sfuggente con il capo, appoggia i gomiti sul bancone accanto a noi e con un sospiro, anch’esso rauco, ordina -Caffè! Lo guardo negli occhi e capisco tutto, soprattutto che oggi, adesso, non vuole rotture di coglioni. Sono due palle rosse, gli occhi. Percorsi da venuzze ramificate in mille spilli di dolore. Gli fa male la testa da morire. Si è appena alzato dal letto dopo poche ore di sonno al termine di una notte di lavoro chissà dove, che significa cantare, suonare e bere, e poi bere, cantare e suonare davanti a un pubblico che alla fine canta insieme a te e puoi cantare Li candareri o Io son disonorato dall’Aida e nessuno più si accorge di un cazzo. Sperava di trovare il bar deserto per via dell’ora e del caldo e invece ci trova due giornalisti che potrebbero mettersi a chiacchierare con lui e soprattutto il popolo di Platamona, che peggio ancora gli potrebbe fare le feste. Chiassose. Con pacche sulle spalle, mani addosso (cosa che lui odia) e richieste di canzoni. Il mio collega e io non siamo nati ieri. Capiamo tutto. Rispondiamo al saluto con altrettanto distratto gesto del capo e lui si tranquillizza e comincia a sciogliere lo zucchero nel caffè girando il cucchiaino piano piano per non fare rumore. Ma basta poco a rompere l’incanto. Uno del popolo di Platamona lascia il tavolino e si avvicina al bancone agitando con gesto rimprovero verso il cameriere il bicchiere vuoto della birra, vede Ruzzetta, resta folgorato, lancia l’urlo di guerra -Cazzu a Ginetto Ruzzetta! Gli altri si voltano come un sol uomo e si precipitano al bancone. Lo circondano. E lui si guarda intorno con gli occhi rossi, come un leone in gabbia, li abbatterebbe tutti a testate. Uno si fa avanti con i suoi pantaloni corti stirati con la piega e stretti sul culo, assume la postura spalle incassate e sedere in fuori da fallu baddà rivolto ai portatori dei candelieri e gli urla sulla faccia -Gine’, a zi la fai daghediri farà li candareri si so’ punendi in festha li quartheri? Lui si volta tentando di finire il caffè, ma dall’altra parte ce n’è un altro, anche quello con i pantaloni corti stirati e stretti sul culo che gli si fa sotto -Gine’, a ti l’ammenti? La mirinzana in forru è bona e assai licchitta… E allora, sarà perché il mal di testa gli invade ogni sentimento, sarà perché La Mirinzana non è sua ma di Tony Del Dro, Ruzzetta esplode nel più modulato, tonico, attoriale, perfetto ed efficace Vaffanculo che abbia mai sentito in vita mia. Era preghiera, direbbe Giusti, e mi parea lamento. C’era il desiderio di restare solo, ma anche la rabbiosa accettazione verso un uso della musica che dopo la quinta birra cominciava a essere necessario ma meno piacevole per l’artista. C’era l’amore e insieme il momentaneo rancore per una Sassari ritrovata a amata dopo anni di lontananza a Genova e Roma. C’era un mucchio di roba in quel vaffanculo che gli usciva dall’anima. E c’era soprattutto una rottura di coglioni immensa e furiosa quanto era languido e afoso quel pomeriggio d’estate. Sbatte la tazzina ancora piena sul piattino e se ne va. Da allora al giornale quel vaffanculo diventò proverbio. E’ stato per anni il simbolo inarrivabile del vero mandare affanculo, del neutralizzare il genere di persone più insidiose al mondo, i rompicoglioni. Per molto tempo, nel nostro slang, quando qualcuno voleva mettere in guardia qualcun altro prima che si varcassero certi limiti, non diceva -Guarda che ti mando affanculo Bensì -Guarda che ti faccio Ginetto Ruzzetta. Una volta gli dissi -Guardi che il suo vaffanculo al bar Capra è diventato un mito. Mi guardò strano. Non ricordo bene cosa accadde dopo. Ma Ginetto Ruzzetta non era come Paganini. Alle volte ripeteva.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
Renatino e i misteri di Roma (di Giampaolo Cassitta)
Elio e le storie disattese (di Francesco Giorgioni)
Un rider non si guarda in faccia (di Cosimo Filigheddu)
Ma Sanremo è Sanremo? (di Giampaolo Cassitta)
Ciao a Franco dei “ricchi e poveri”. (di Giampaolo Cassitta)
La musica che gira intorno all’Ucraina. (di Giampaolo Cassitta)
22 aprile 1945: nasce Demetrio Stratos: la voce dell’anima. (di Giampaolo Cassitta)
Ha vinto la musica (di Giampaolo Cassitta)
Pacifisti e pacifinti (di Simone Floris)
Lo specchietto (di Salvatore Basile)
Da San Gavino a San Cristoforo, quando colonizzammo il Villaggio Verde. Ovvero il trasloco (di Sergio Carta)
Se riesco a buscare 5000 Lire ci vediamo allo Zoom, ovvero le pomeridiane in discoteca degli anni’80. (di Sergio Carta)
Papa Fazio (di Cosimo Filigheddu)
Inserisci il tuo indirizzo e-mail per iscriverti a questo blog, e ricevere via e-mail le notifiche di nuovi post.
Unisciti a 18.020 altri iscritti
Indirizzo e-mail
Iscriviti
sardegnablogger ©2014 created by XabyArt - graphic & web design