Arrivo trafelata ai colloqui. Sono le 15.00 ho terminato la mia mattinata di lezione alle 13.40. Un’ora scarsa per pranzare, darmi una rinfrescata, una mano di intonaco sul trucco di stamattina e torno a scuola.
Nonostante siano ancora le 14.50 non si trova uno straccio di parcheggio per almeno i tre isolati adiacenti alla scuola. Sistemo l’auto alla bell’e meglio abbastanza lontano e corro verso l’edificio. Percorro la hall che, nonostante i cinque minuti di anticipo, già pullula di genitori impazienti. Controllo nella piantina la mia collocazione e mi dirigo verso la classe nella quale sarò ostaggio fino alle 19.00. Ho tre classi, ognuna di venticinque alunni e mentalmente faccio un rapido calcolo del tempo che potrò dedicare ad ogni genitore. Non sono mai stata un genio in matematica, però il conto della serva, di cui sono ancora capace, mi comunica un risultato disarmante: tre minuti e due secondi. Mi sistemo nel mio banco, apro il registro e già si avvicina una mamma. – Posso? – mi dice. – Certo signora che può, anzi deve! Non possiamo sprecare minuti preziosi nell’attesa – Ma non glielo dico, lo penso e basta. L’accolgo con un sorriso, ci stringiamo la mano, lei afferra la mia come fosse di cristallo e non avverto la presa: ha debolmente preso le mie falangette e le pizzica come una presa di sale da mettere nell’acqua che bolle. Cerco di essere stringata, le comunico i voti e giusto un piccolo accenno alla distrazione del figlio, alle sue chiacchiere costanti e all’approccio ancora molto ludico verso la vita scolastica. Mi sorride – anch’io ero così da studentessa – e vabbè, però non è un’attenuante. Capisco che sta per inanellare una serie infinita di ricordi e le porgo la mano, la ringrazio e la saluto. Penso di aver sforato, di poco però.
Avanti il prossimo.
Un papà che, già dopo il saluto, premette di avere una fretta bestiale. – Benedetto sia quest’uomo – penso. I voti allo scritto, all’orale e via il prossimo.
La terza mamma mi stringe la mano con vigore. Parliamo un po’ del figlio e mi dice che non è un bel periodo per il ragazzino, lei e il marito stanno attraversando un momento di crisi, sono sull’orlo della separazione. Ora capisco perché in classe è svogliato. Le faccio qualche domanda per capire meglio. E mentre ascolto la trapasso con lo sguardo, la fila s’intensifica e noto già qualche espressione spazientita. La signora continua a parlare e un’altra mamma, in lontananza, mi mostra l’orologio al polso, come dire: – Dai, da brava, taglia corto! – – No signora, io non voglio tagliare corto. Voglio sapere perché quel 2 non è un 6. Ho il diritto di conoscere se qualche alunno è privo della serenità per dedicarsi allo studio di Diocleziano. – Continuo a parlare con la signora e gli occhi le si inumidiscono. Cerco di farle forza, non so cosa dire. Sussurro due parole di circostanza: – Vedrà che passerà questo brutto periodo – ma non sono tanto convinta mentre lo dico e non riesco a convincere nemmeno lei. Non ho successo e non sono capace di farle ricacciare quelle lacrime lì, dove sono nate. Se ne va con gli occhi ancora lucidi.
Arriva la terza mamma, quella che mi mostrava l’orologio. – Certo che lei è una chiacchierona – mi dice sorridente ma piccata. – Sì, lo sono. Ma non sto chiacchierando: sto parlando dei vostri figli. Non mi piace essere un speaker di voti. Voglio sapere della loro vita fuori dalla scuola e raccontare quella porzione della giornata che trascorrono con me, anche! – Passo con loro tutte le mattine per cinque giorni a settimana, vi interessa sapere quel che vedo?
Ho sforato clamorosamente il tetto dei 3 minuti e 2 secondi. Con qualcuno mi sono attardata fino a raggiungere i dieci minuti.
Avrei voglia di un caffè e una sigaretta, non posso. Resto incatenata al banco.
Lancio uno sguardo al collega vicino che, privo di genitori, compila beatamente il registro. Mi guarda e sorride, la sua espressione è tutto un programma: “cazzi tuoi che insegni italiano e storia, con l’estimo la vita è più semplice!” Al termine dei colloqui gli chiederò conferma.
Le mamme continuano ad arrivare, senza soluzione di continuità. I voti si mescolano a brandelli di vita. Vite dolorose: il marito malato, la disoccupazione, i sacrifici per tirare avanti, il trasloco al paese perché non ci si può permettere la casa ad Olbia. Divento un raccoglitore dove liberare il contenuto dei patimenti che li assillano quotidianamente. Io ascolto e accolgo, spero che sgomberare, anche solo per un pomeriggio, possa dare sollievo. In qualche caso i voti e l’andamento didattico dei figli diventano assolutamente marginali rispetto al dramma quotidiano dei genitori. Arriva una mamma, si scusa per non essere venuta ai colloqui precedenti: come sa – dice – ero al paese per il funerale di mia madre. Il flashback la fa sprofondare nel medesimo dolore e piange. Forte, quasi coi singhiozzi. Esco dal banco, l’abbraccio. Quelli in fila guardano incuriositi e le facce esasperate dall’attesa si vestono di interesse.
Arriva un papà, sconfortato: i colleghi non gli hanno date notizie positive, tutte insufficienze quelle della figlia e non riesce a portare a casa il gol della bandiera nemmeno nelle mie materie. Si scusa, si vergogna quasi fosse lui il pelandrone che non ha voglia di studiare. Mi si stringe il cuore.
Ho voglia di fare la pipì. Guardo la fila ancora corposa e chiedo alla mia vescica un atto eroico.
Mancano 10 minuti alle sette, guardo i genitori a cui devo ancora concedere udienza e ne avrò per una mezz’ora abbondante. Sono stanca. Parlo ormai quasi meccanicamente, comunico voti, stringo mani, elargisco sorrisi fiacchi. Sono le 19.40 ricevo l’ultimo, un rinnovato vigore mi pervade all’idea che tra poco tornerò a casa. Arrivano due mamme: – Scusi, abbiamo finito di lavorare poco fa… siamo ancora in tempo? – – Certo, accomodatevi sono ancora qui. – Sono le 20.15 infilo il cappotto, ho fame. Percorro il corridoio, due rampe di scale e la hall.
Fuori l’aria è frizzante, mi entra bruscamente nelle ossa. Tiro fuori il pacchetto delle sigarette e ne accendo una. Aspiro una lunga boccata, mi sembra un sorso d’aria dopo essere stata a lungo sott’acqua. Mi dirigo verso la macchina e, mentre rovisto nella borsetta alla ricerca delle chiavi, si avvicina una mamma: – Scusi, ha già finito? – mi chiede con stupore. – Eh sì! – le dico laconica con un sorriso tirato. – Non mi può dire come va quest’anno mio figlio? Sono arrivata adesso da San Teodoro.. – – Certo che glielo dico, signora. Sono ancora qui.-
Poggio la borsa sul cofano e tiro fuori il registro.
La piccola Romina nasce nel '67 e cresce in una famiglia normale. Riceve tutti i sacramenti, tranne matrimonio ed estrema unzione, e conclude gli studi facendo contenti mamma e papà. Dopo la laurea conduce una vita da randagia, soggiorna più o meno stabilmente in varie città, prima di trasferirsi definitivamente ad Olbia e fare l’insegnante di italiano e storia in una scuola superiore. Ma resta randagia inside. Ed è forse per questo che viene reclutata nella Redazione di Sardegnablogger.
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