Agli ultimi arrivati, a chi si comportava male o godeva di scarsa considerazione, i vertici dell’istituto assegnavano il servizio alla sbarra del residence “La Dolce sposa”. L’istituto era la vigilanza privata della Costa Smeralda, dove negli anni novanta mi guadagnavo da vivere. La sbarra stava all’ingresso del residence, che guarda in faccia Porto Cervo dall’altro lato del golfo. I condomini si lamentavano dei troppi furti subiti e della poca attenzione da parte delle forze dell’ordine, così per i mesi di punta pretesero ed ottennero un uomo in divisa fisso all’ingresso, a fare da guardiano. Il turno durava otto ore. Otto ore in piedi su un quadrato d’asfalto in lieve pendenza, nessun cono d’ombra ad alleviare il sole feroce di agosto. C’era, se non ricordo male, qualche ciuffo d’oleandro che sporgeva dal giardino della villa accanto all’ingresso, dove stava parcheggiata una Lancia Fulvia bianca con targa inglese e cerchioni cromati, sempre lustri da potercisi specchiare. Durante il turno non ci si poteva sedere. La guardia doveva apparire marziale, tutta d’un pezzo, insensibile alla fatica. Sudare era consentito ma considerato indice di debolezza. In quegli anni, Berlusconi aveva ancora le sue proprietà in Costa Smeralda, entrambe a poche centinaia di metri dalla Dolce Sposa. Villa “Il Forte” – acquistata dall’avvocato Ardöin, uomo di fiducia dell’Aga Khan – e villa “Dolce drago”, una specie di castello venduto qualche anno dopo all’industriale russo Anisimov. Una sera d’agosto, credo fosse il 1996, Berlusconi apparve al collega in servizio alla sbarra. Stava completando la sua corsetta serale, come sempre condivisa col codazzo delle guardie e dei collaboratori, un quadretto che da come me lo descrisse il collega ho sempre immaginato molto simile a quello della famosa foto scattata ad Antigua, Berlusconi a dettare il passo ai suoi manager disciplinatamente allineati, tutti in maglietta della salute. Il collega alla sbarra era un certo Cossu, un ventenne atletico dal ciuffo alla Little Tony, molto gradito (lui, nella sua interezza, non il ciuffo) alle giovani ereditiere della Costa Smeralda. Berlusconi gli passò accanto e, vedendolo irrigidito di fronte alla sbarra, si fermò di colpo, provocando un tamponamento a catena tra i suoi seguaci. “Cosa fa qui?”, domando il cavaliere a Cossu. “Devo controllare l’ingresso del residence”. Berlusconi sorrise, poi domandò ancora alla guardia se di tanto in tanto gli fosse consentito sedersi a riposare. “No, non possiamo”. Berlusconi sorrise ancora, stavolta con occhio misericordioso. “Mi dia retta, quando è stanco si segga”. Poi strinse la mano a Cossu e riprese il suo footing, rimettendo in moto l’intero convoglio alle sua spalle. Le parole di Berlusconi si diffusero tra le guardie, suscitando viva impressione e abbattendo consolidati sensi di colpa. Forse non era così disonorevole e nemmeno atto contro natura sedersi per stanchezza, durante il servizio alla sbarra della Dolce Sposa. Quella stessa estate capitai anch’io alla sbarra della Dolce sposa. Ricordo che per qualche settimana restò alla fonda, proprio davanti all’imboccatura del golfo, il veliero da settanta metri di Bernard Tapie, padrone dell’Adidas e presidente dell’Olimpique Marsiglia. Il Berlusconi di Francia, dicevamo allora, avendo i due personaggi molti rocamboleschi tratti in comune. Dalla Dolce Sposa il veliero si vedeva benissimo. Un tardo pomeriggio di quell’agosto, io impalato alla sbarra, lenta lenta e tossicchiante transitò davanti a me una vecchia Mercedes grigia targata Napoli. Sfilò alla sinistra della sbarra, seguendo una strada che poi finiva in una rotonda sul mare, proprio come quella cantata da Fred Bongusto. Nell’immaginario della guardia giurata, nella Costa Smeralda anni novanta, vecchia Mercedes suggeriva pericolo: era l’auto tipo delle bande di giostrai nomadi che calavano in Sardegna dal Continente per svaligiare ville e appartamenti. Mi avvicinai alla berlina con passo felpato, sullo sfondo il veliero bianco di Tapie inondato dai bagliori rossi del tramonto. L’auto ballonzolava, come se dentro qualcuno si agitasse furiosamente. Sentivo ridere, ridere senza ritegno, ridere d’isteria. Dentro l’auto c’erano un signore di mezza età e, sul sedile accanto, un bambinone grasso, dodici massimo quattordici anni. Il ragazzino indicava la barca col braccio teso. Lacrime gli rigavano il viso pacioccone, piangeva dalle risate anche il padre. “Perché ridete?”, chiesi affacciandomi al finestrino destro spalancato. Il padre fece un cenno con la mano per cedere la parola al figlio, non ce la faceva proprio a parlare, mentre con l’altra mano si teneva la pancia. Il ragazzino si ricompose quel tanto sufficiente per riuscire a farsi comprendere. E con quel meraviglioso, melodioso accento partenopeo, mi spiegò la situazione. “Vede il gommone dietro chilla nave?” Lo vedevo. Un microscopico gommone legato alla poppa del veliero da una cima quasi invisibile. “Ecco – concluse il ragazzo – io e mio padre ridiamo così forte perché chillo nababbo s’è comprato una nave così grande mentre noi non teniamo manco i soldi per comprarci chillo canotto”. E di nuovo ripresero a ridere. E ridendo il padre riavviò il motore, salutò e si allontanarono. Quando mi chiedono un’immagine che rappresenti la dolcezza di un rapporto tra padre e figlio, io racconto questa. Un padre e un figlio che guardano il mare e ridono assieme dei più e dei meno della vita, senza rabbia né rancore.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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