La svolta fu nel 2006 con un dialogo nel bar di “Casino Royale”. Bond. Un Vodka Martini! Barista. Agitato o mescolato? Bond. Che vuole che me ne freghi? Ian Fleming saltò fuori dalla sua tomba nel camposanto della chiesetta di Sevenhampton, nel Gloucestershire, per abbracciare il regista Martin Campbell. Daniel Craig invece si sottrasse a ogni smanceria. Non gli andava di lasciarsi mettere le mani addosso da chicchessia, ma specialmente da un morto. Figuriamoci, proprio uno come lui, cioè, come il suo 007, che la sfida ogni momento, ma con amarezza, perché sa bene quanto sia brutta la morte. Fleming (nella foto sopra) era schiattato 42 anni prima di questo fatto, esattamente nel 1964, fulminato da un infarto frutto di un annoso e stravizioso cocktail di alcol e sigarette. La data però che ci offre la scusa di parlarne in questa agenda è quella della sua nascita, avvenuta a Londra il 28 maggio del 1908. Questo significa che dovremmo parlare di lui, dell’autore, dell’inventore del personaggio iconico. Invece, siccome sono disordinato, preferisco parlare della sopravvivenza del mito letterario assicurata dal cinema. Già, questo è uno di quei casi in cui forse un personaggio sarebbe potuto entrare nell’immaginario di ogni tempo anche senza l’aiutino dei fratelli Lumiere. Come a esempio è stato per Sherlock Holmes o per Achille, che anche senza i film su di loro avrebbero comunque abitato un pezzetto del cervello di tutti i loro posteri. Chi lo sa? Quei romanzi di Fleming sono incredibilmente belli, ti accorgi che dentro c’è tutto lo sfarfallio e il frizzare primigenio del mito nascente: te lo senti sui polpastrelli delle dita, mentre li sfogli, che sta succedendo qualcosa di antropologicamente rilevante. Forse, quindi, lo 007 di Fleming, nato nel 1952, avrebbe avuto lo stesso destino anche se nel 1961 il produttore Albert Broccoli non avesse cominciato a sfornare film su di lui facendoli interpretare a Sean Connery. Ma non lo sapremo mai perché i film hanno preso il sopravvento e la sopravvivenza di Bond è ormai affidata soltanto a loro. E quindi si partì con Sean Connery, alla grande, partenza con il botto. James diede un senso a Sean, giovanissimo attore e ancora irrisolto, e Sean aiutò James a uscire dal dopoguerra, dove rischiava di invecchiare inutilmente, per entrare nel mondo a colori degli anni Sessanta e Settanta. Un cinismo un po’ più accennato, quello di Connery, ma con quel tanto di raffinata e patriotica bestia spietata che costituisce il fondamento del mito di 007. Insomma, non per insistere su Achille ma giusto per farmi capire. La sua disperata ferocia che lo porta cosciente sino alla morte è il tratto fondamentale dell’immortale star omerica. Ma se è proprio necessario visualizzarlo in questo suo carattere, non possiamo vestirlo di corazze di bronzo e armarlo di lance. Nessuno lo capirebbe, si correrebbe il rischio di consegnarlo alla polvere della storia. Così per 007. Sean Connery ha spiegato con il suo sorriso sghembo come funziona l’eterno gioco del potere, quello del suo lato nascosto, quello che ha bisogno di uomini e assassini per mantenere misteriosi equilibri. E così il primo James Bond del grande schermo ha ridipinto i segni con i quali Fleming aveva tracciato se stesso e il suo passato di spia al servizio della Royal Navy. Poi Connery minacciò di mollare e, prima che lo convincessero a riprendere, i produttori si dettero al sicuro facendo scendere in pista tale George Lazenby, un australiano che in “Al servizio segreto di sua maestà”, tentò di riportare 007 alla sua letteraria cupezza primigenia. Cioè, l’idea non era sua ma del regista Peter Hunt. E poteva anche essere buona. Ma Lazenby aveva la stessa agilità espressiva di quel pastorello sdraiato che c’è in tutti i presepi e dentro i suoi occhi, anziché lo scuro e sorridente annuncio di madama Morte, ci leggevi la domanda: “Ma ora dove cazzo sono, esattamente?”. Così si ritornò a Sean Connery e, quando lui mollò ancora, iniziò la serie che garantì a 007 qualche altro anno di immortalità. Come sia riuscito a farlo con successo uno tipo Roger Moore lo sa soltanto il dio delle icone. Cioè, faceva il pagliaccio anziché la spia. Io per dovere di bondiano non ho mai mancato un film di 007, ma sinceramente quando lo sentivo affermare “Mi chiamo Bond, James Bond” mi veniva da rispondere: “E lasciami i coglioni!”. Suscitando alle volte nel cinema le proteste dei vicini di poltrona. Che dire poi di Timothy Dalton? Apprezzabile il suo sforzo, reso però inutile dal fatto che nella precedente reincarnazione era un portaombrelli e probabilmente se ne era portato appresso mobilità ed espressività. In quanto a Pierce Brosnan io l’ho molto ammirato nella commedia “Non buttiamoci giù” di Pascal Chaumeil (tratto dal best seller di Nick Hornby), e nel dolcissimo e amaro “Love is all you need”, di Susanne Bier. Dice, e cosa c’entra con 007? Nulla. Ma io sono come quel critico musicale che recensì una “Traviata” giudicando approfonditamente la prova di tutti gli interpreti, da quello di Alfredo sino alla domestica Annina, senza mai citare il soprano cui era affidata la parte di Violetta, che per chi non lo sapesse sarebbe l’eroina eponima. Quando gli chiesero perché, lui rispose che non voleva parlarne male. E quindi arriviamo a Daniel Craig, la vera assicurazione di sopravvivenza del mito. Un’iniezione di gerovital che anche se Craig dovesse davvero mollare Bond dopo questo “Spectre”, come si dice, garantirà qualche altro decennio di vita eterna (e lasciate perdere quest’ultima contraddizione, non fate i sofistici) all’eroe di Fleming. Come? Prima di tutto ripetendo ma con travolgente successo l’esperimento tentato con Lazenby, cioè quello di recuperare l’uomo di Fleming, cupo e disperato, in fondo un po’ rozzo, tormentato, umano, capace di sbagliare e incapace di soddisfare tutti quei desideri irrisolti che Fleming aveva riversato nel personaggio. La vera ironia di Bond, insomma. Che non è quella tagliente di Connery, sempre comunque migliore di quella stile Scaramacai di Moore, ma un sorriso amaro, doloroso, sporco del suo sangue e di quello degli altri. E poi il salto nella modernità. Ma volete che un Bond raffinato buongustaio riesca ancora a impressionare qualcuno nel mondo di oggi, quello di Master Chef? Altro che agitato o mescolato. E ti dico che non me ne frega niente giusto per non mandarti affanculo. Cosa che forse avverrà con il prossimo interprete. Caro Bond, benvenuto nel Tremila. Ah, scusate, mi chiamo Filigheddu, Cosimo Filigheddu.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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