Possedere un jet privato ma dormire sul pavimento di squallidi motel, unico modo per scendere a patti con una schiena malconcia e ormai insensibile al cortisone.
Giocarsi una semifinale di Wimbledon col terrore di vedere cascare sul campo un parrucchino malamente appiccicato alla pelata e, col toupet, perdere l’immagine di uomo dai folti capelli dorati e la sponsorizzazione della multinazionale dello shampoo. Chiudersi dentro una villa di Las Vegas per settimane e per tutte quelle settimane bere e mangiare smodatamente, strafarsi di droga assieme ad un tossico amico d’infanzia e poi, una volta smascherato dall’antidoping, far ricadere ogni colpa su quel compagno di sballo. Svegliarsi sulla moquette di una suite, da qualche parte del mondo, ma senza sapere esattamente dove. Essere così abituati a possedere tutto da poter avere Brooke Shields prenotandola via fax, per poi perdere qualunque interesse per una delle donne più affascinanti del mondo. Dare fuoco agli arredi della suite da centinaia di migliaia di dollari per dimenticare il bruciore di una sconfitta. Odiare il tennis, ma non poterne fare a meno.
Se non avete mai letto Open, la biografia del grande tennista André Agassi, vi consiglio di colmare questa lacuna. Il libro è del 2009, ma viene ristampato continuamente perché è ancora molto richiesto. Secondo il New York Times è la più bella biografia sportiva mai scritta. Un libro del quale ho sentito una grande nostalgia ancor prima di averne finito la lettura. Composto assieme al giornalista Premio Pulitzer J.R. Moheringer, Open non è semplicemente il racconto di una fulgida carriera sportiva: è molto altro e forse il tennis non è l’elemento più importante. Lungo il trentennio che va dai primi allenamenti al ritiro del campione di Las Vegas, Agassi racconta il suo vertiginoso viaggio dentro un mondo orribile, asfissiato da una competizione crudele e dalla superficialità di personaggi completamente travolti dal sogno del successo. Il primo fra questi è Mike, il padre di Agassi, un iraniano di origine armena ossessionato dal desiderio di vedere i propri figli eccellere nel tennis. Ex pugile con una partecipazione alle Olimpiadi nel 1948, irascibile, manesco, incapace di qualunque manifestazione di affetto, trovò lavoro in un casinò di Las Vegas e qua iniziò a coltivare la passione per la racchetta. André era il più promettente e venne massacrato fin dai primi anni di vita, bersagliato per dieci ore al giorno dalla macchina sparapalle che Mike Agassi progettò e costruì apposta per il figlio prediletto. Nel campo di tennis dietro la casa, acquistata proprio perché c’era il campo da tennis. Quel figlio iniziò da presto ad odiare il tennis, perché il tennis gli toglieva ogni libertà concessa ai suoi coetanei. E seguitò ad odiarlo quando, da enfant prodige praticamente imbattibile, venne spedito nell’Accademia californiana dello stregone Nick Bollettieri: camerate militari, gli ululati notturni dell’allievo Joe Courier, una scuola dove si lasciava correre tutto purché si corresse abbastanza in campo.
Il resto sono successi, cadute, alcolismo, droga, un matrimonio fallito, bulimia, l’odio verso Boris Becker, la simpatia con Pete Sampras, il rapporto chiacchierato con Barbra Streisand, l’ammirazione per Bjorn Borg e John McEnroe, la supponente alterigia di Ivan Lendl, che camminava nudo negli spogliatoi davanti agli avversari.
Il resto è anche quella miserabile battuta di Jimmy Connors. Era un campione già affermato quando Andrè, ancora bambino, lo conobbe a Las Vegas: Mike Agassi gli accordava le racchette e mandava il figlio campioncino a consegnargliele, cosicché il big del tennis americano e il bambino prodigio arrivarono persino a palleggiare assieme. Quando Agassi, diventato professionista, incrociò per la prima volta la racchetta con Connors e sentì il dovere di presentarsi, per ricordargli chi fosse, Connors finse di non conoscerlo. E dopo la partita (persa) così rispose ai cronisti: “Non so chi sia questo ragazzo, ma avendo passato molto tempo a Las Vegas da giovane potrebbe anche essere mio figlio”.
Il resto è anche l’affetto paterno del preparatore superman Gil Reyes, l’amicizia fraterna col bizzarro coach Brad Gilbert, l’amore definitivo con Steffi Graf,
In questi giorni si è venuto a sapere che il grande Roger Federer ha investito dodici milioni di dollari per costruire scuole in Africa. Non credevo che tra l’elegante e signorile svizzero e l’esplosivo fenomeno di Las Vegas potessero esserci punti in comune, ma poi mi è venuta in mente proprio la scuola. Agassi, a fine carriera, ha costruito con fondi propri e donazioni una scuola pubblica in un quartiere degradato di Las Vegas, una scuola per bambini penalizzati da condizioni familiari difficili. Due campioni diversi, un obbiettivo comune. Offrire ai meno fortunati l’opportunità di imparare sui banchi di scuola: forse solo quando si ha tutto si capisce cosa davvero è importante nella vita.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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