Adotta un danese. (di Fiorenzo Caterini) Un gruppo di africani, non meglio, volutamente, individuati, ha lanciato dal loro paese la campagna “adotta un danese”, in risposta, scherzosa, alle polemiche divampate nei social in Danimarca, dove si sosteneva che venivano dati troppi soldi all’Africa e pochi ai loro anziani. Il senso della risposta africana era “siamo poveri ma noi degli anziani ci prendiamo cura”. Ed infatti ecco, nello spot, l’anziano signore danese circondato da affettuosi africani, ridendo e scherzando. Recentemente la Danimarca è salita alla ribalta delle cronache per un altro fatto: il paese che una indagine dell’Onu ha eletto come il più “felice del mondo”, infatti, con la recente svolta a destra del suo governo, ha chiuso di fatto le frontiere all’immigrazione, con la conseguenza di una carenza di manodopera specializzata che sta provocando danni seri alla produzione economica. Un paese che ha raggiunto il sogno della quasi totale occupazione, intorno al dato, che è fisiologico, del 4% (in Italia, per fare un confronto, è al 12 %, mentre nella vicina e pur ricca Svezia è al 7%), si trova a dover rallentare le commesse di alcune aziende, che non riescono a ottemperare alle richieste a causa della mancanza di manodopera. Problemi derivanti dal troppo benessere, si dirà: di recente una profuga russa ha scatenato sui social danesi una campagna contro gli sprechi alimentari, ottenendo un buon successo e raccogliendo dei fondi, con la semplice attenuazione di quello spreco, per i paesi poveri. Nelle cronache di questi giorni la Danimarca viene definita come “civilissima”, oltre che bellissima e felice, con tutto il contorno degli stereotipi che la sudditanza psicologica nei confronti dei paesi nordici ha sviluppato. Verrebbe da chiedersi, tuttavia, perché un paese è civilissimo sempre e comunque quando è ricco, e incivile sempre e comunque quando è povero. La Danimarca insomma sembra essere un paese felice, ma solo se lo guardiamo con i nostri occhi da occidentali dove la ricchezza, il PIL, diventa l’unico paradigma. Nessuno, ad esempio, dice che la Cina, in fin dei conti, ha lo stesso tasso di disoccupazione della Danimarca. Certo non ha il tenore di vita altissimo dei danesi, e al posto di una bella berlina i cinesi ci hanno la loro umile bicicletta. Ma il tasso di disoccupazione è lo stesso. Con una piccola differenza. In Danimarca vivono cinque milioni e mezzo di persone, mentre in Cina ce ne vivono un miliardo e 350 milioni. Se proprio la vogliamo dire tutta, il vero miracolo è quello cinese, non quello danese. Dare lavoro a 5 milioni e mezzo di persone, per una nazione peninsulare che si trova nel bel mezzo di uno dei crocevia più trafficati del mondo, testa di ponte tra la industriosa Germania e la ricca Scandinavia, e nel passaggio strategico tra il Mare del Nord e il Mar Baltico, non mi pare, in fondo, questo grande miracolo. E’ la normalità, a pensarci, per una piccola nazione posta in una posizione felice e strategica, che, tra l’altro, ha una densità abitativa minore di quella cinese. Viceversa, dare lavoro a quell’enorme massa di persone, con conurbazioni che spesso superano le decine di milioni di abitanti, ecco, quello si che è un miracolo di ingegneria sociale. Ma non si può dire. Non si può dire perché la Cina è “comunista”, anche se di comunista, ormai, ha mantenuto solo la proprietà terriera, in mano allo Stato, mentre per il resto è pienamente dentro i principi del mercato. Forse anche troppo, per i nostri gusti. Quindi viviamo in un mondo dove gli stereotipi, i pregiudizi, le deformazioni culturali, e persino il razzismo, offusca i dati sociali piegandoli a piacimento. Io non riesco ad immaginarmi, ad esempio, come possa essere definito il paese “più felice del mondo”, quello che chiude le frontiere, causando un danno alle proprie aziende, pur di soddisfare l’egoismo e il razzismo di una parte dell’elettorato. Del resto, se il mondo è ormai dominato dal mercato, è il mercato che detta i principi fondamentali dello sviluppo, della civiltà, e persino della felicità. Che, verosimilmente, proviamo a misurare ma, invero, non sappiamo più neppure cosa è.
Fiorenzo Caterini, cagliaritano classe '65. Scrittore, antropologo e ambientalista, è studioso di storia, natura e cultura della Sardegna. Ispettore del Corpo Forestale, escursionista e amante degli sport all'aria aperta (è stato più volte campione sardo di triathlon), è contro ogni forma di etnocentrismo e barriera culturale. Ha scritto "Colpi di Scure e Sensi di Colpa", sulla storia del disboscamento della Sardegna, e "La Mano Destra della Storia", sul problema storiografico sardo. Il suo ultimo libro è invece un romanzo a sfondo neuroscientifico, "La notte in fondo al mare".
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