Firenze, Teatro Della Pergola, 1982. C’è “Ditegli sempre di sì”, uno dei più bei lavori di Eduardo De Filippo, scritto nel 1927 eppure fresco in ogni passaggio, nei movimenti scenici, nella trama, nell’ambientazione. Michele Murri è il personaggio principale. Di straordinaria difficoltà interpretativa. E’ un pazzo dichiarato guarito, ma in realtà ancora pazzo. E’ il lato pirandelliano di De Filippo. Gioca con la follia, con il rapporto tra follia e normalità (una rivisitazione della drammatica domanda “Sono pazzo o non sono pazzo?” gridata dal protagonista dell’Enrico IV di Pirandello) calato in un contesto più reale, amaramente comico, tragico nella comicità. Bisogna renderlo con toni e pause ma anche con improvvise espressioni. E sapete quanto è difficile modellare il viso, a teatro. Il palcoscenico è lontano dal pubblico, non ci sono macchine da presa per i primi piani. Quindi bisogna caricare: strabuzzare gli occhi per uno sguardo di sottecchi, distorcere la bocca in un ghigno satanico perché in ultima fila arrivi solo un sorrisetto amaro. E se sbagli, fai la figura del buffone, di un dilettante che fa le smorfie. Roba da grandi attori quando un’intera parte è giocata su cose del genere. E Michele Murri, quella sera di ottobre del 1982, non era Eduardo, ma suo figlio Luca, morto oggi all’età di 67 anni. Fu straordinario. Mi si drizzavano i peli delle braccia, mi prendeva al cuore con la sua follia cattiva e amara, mi faceva ridere come uno scemo per battute che conoscevo a memoria di una commedia che avevo letto e riletto e visto e rivisto mille volte interpretata dal suo grande autore. Luca non di discostava dal padre, era nella sua scia interpretativa, lo amava e rispettava troppo per potersene allontanare. Ma su quel palco pure nella rigida obbedienza a una regia collaudata in ogni particolare, aveva una sua meravigliosa autonomia di carattere e di tecnica. Eccomi, diceva, sono il figlio di Eduardo, mi assomiglio a lui, ma sono un altro. Un artista, capii quella sera, che se avesse voluto liberarsi del fardello di quel cognome, e di quel viso e di quella voce simili a quelli di Eduardo quanto il cognome, avrebbe certamente avuto una carriera autonoma da grandissimo attore di caratura internazionale. C’era un pubblico freddo, ne capitano, anche se la Pergola non è di norma teatro di pedanti con la puzza sotto il naso. Poche risatine quando c’era da scompisciarsi, mai un applauso a scena aperta per premiare certi monologhi o certe battute fulminanti condite dalle pause sapienti di chi si sa muovere a proprio agio nella stanza di tre muri. Niente. Solo un educato applauso alla fine del primo atto e neanche una richiamata in scena della compagnia. Quando il sipario si chiuse fui soltanto io a continuare ad applaudire per farli uscire ancora, e i vicini mi guardarono sostenuti. All’inizio del secondo atto “Ditegli sempre di sì” langue per un po’ di battute. E’ il punto debole di molte commedie quando c’è un salto di tempo e di storia rispetto al primo atto e l’autore incarica alcuni dei personaggi di spiegare con vari espedienti che cosa è accaduto nel frattempo. Ed è in questo breve e unico momento statico della commedia che, a una battuta come le altre di Michele-Luca, scoppiò un interminabile applauso a scena aperta. Gli attori tentavano di continuare ma non c’era niente da fare, l’applauso era incontenibile. E io mi dicevo: ma questo è un pubblico di coglioni, prima tutti zitti e sussiegosi davanti a certe genialità interpretative e ora rompono le balle da cinque minuti buoni per un passaggio che non ne vale la pena. Poi mi accorsi che anche gli attori si erano messi ad applaudire rivolti verso qualche punto della sala, forse verso un palco, lo stesso verso cui si giravano gli spettatori. Chiesi che cosa succedesse. C’era Eduardo. Io non feci in tempo a vederlo. Si era affacciato per un attimo per dare un’occhiata, per vedere come il figlio stesse trattando il suo lavoro. Qualcuno del pubblico lo aveva notato ed era scoppiato l’applauso. Mi sentii triste, tanto triste e cercai gli occhi di Luca lontani sul palcoscenico per vedere se specchiassero la mia tristezza. Non ci riuscii. Era voltato verso le quinte. Dissi a voce alta: “Non bisogna applaudire Eduardo, bisogna applaudire Luca, è lui che sta recitano adesso”. Naturalmente nessuno mi diede retta. E mi ricordai del famoso episodio raccontato da Achille Campanile, quando in un teatro romano la sua commedia “Centocinquanta la gallina canta” fu fischiata sonoramente. Lui dietro il sipario chiuso, insieme agli attori, sentiva il boato di urla e insulti, quando a un tratto i fischi divennero applausi. Speranzoso un attore spiò in sala e si accorse deluso che il pubblico applaudiva Pirandello che era comparso su un palchetto. E allora Campanile incazzatissimo uscì sul proscenio e urlò: “Applaudite me, l’autore sono io, non lui. Oppure continuate a fischiarmi, ma occupatevi di me”. Ma Pirandello non era sua padre, per di più un padre molto padrone, come pare fosse Eduardo, nonostante tutte le interviste di segno opposto rilasciate da Luca. Eppure se quella sera avesse urlato: “Applaudite me, l’attore oggi sono io”, ecco, quella sera sarei uscito un po’ meno triste dalla Pergola.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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