In un ristorante di Cagliari, Stintino, Villasimius, Palau o in un qualunque altro posto della Sardegna che Volete, quando il pasto sta per concludersi arriva il cameriere e si impala davanti al tavolo. “Gradite un dolce?” In caso di risposta affermativa, parte il mantra (che presumo il cameriere abbia imparato a memoria nel ’97): “Abbiamo il creme caramel, la panna cotta ai frutti di bosco o al cioccolato, il tiramisù, l’affogato al caffè, il tartufo bianco o al cioccolato….”. L’unico dolce sardo della lista, in genere, è la seada. In genere è l’ultimo dell’elenco e in genere è una scimmiottatura industriale della seada, ma vabbé. Io, alla fine di una cena in ristorante, avrei sempre voglia di acciuleddi, il mio dolce preferito. Trecce di pasta fritta immerse nel miele. Non ricordo di aver mai mangiato acciuleddi in un ristorante. La domanda è: possibile che nel menu dei ristoranti sardi non ci siano le copulettas, le pardule, li papassini, s’aranzada, lu brocciu cu lu meli, li cucciuleddi e tutti i nostri deliziosi dolci, con tutto il loro contesto di saperi e manualità? Possibile che debbano restare confinati negli agriturismo o in certi ristoranti chic, come se fossero cibi di nicchia per pochi eletti? Possibile che se ceno in ristorante della Valtellina trovo bresaola, pizzoccheri e polenta in ogni portata proposta e in Sardegna non si vada oltre la fregula e il maialetto? Ristoratori sardi, mettete i dolci sardi nei vostri menu.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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