Nel 2012 Matteo Renzi si presentava alle primarie del PD per diventarne segretario, perdendo la battaglia contro Bersani. In quell’occasione stilò un programma dallo slogan futurista, “ Matteo Renzi, adesso!”, un documento di 26 pagine su economia, lavoro, pensioni, scuola, università. L’università. Nel sottoparagrafo del capitolo “Investire sugli italiani”, Renzi sondava in una trentina di righe le arcinote anomalie del mondo accademico: mancanza di fondi, difficoltà di accesso alla ricerca, e così via. Nel dicembre 2013, nuove primarie che lo videro, stavolta, vincitore. Lo slogan diventava “Renzi, L’italia cambia verso”. Nel documento congressuale la parola università scompariva per far spazio a riferimenti al mondo della scuola degni del libro Cuore di De Amicis. Ora Renzi è segretario del PD e presidente del Consiglio. L’ ora della “ Svolta Buona” è arrivata. Il documento relativo alle riforme da attuare nei 100 giorni assomiglia più ad un volantino pubblicitario che ad un documento programmatico. Le offerte allettanti non mancano. Vendesi auto, quasi nuova, di colore blu. Una casa per tutti. In tema di ricerca, l’intenzione di raddoppiare i fondi per il credito d’imposta per aziende e attività che puntino sulla ricerca. E se il problema dell’università italiana andasse oltre la pur cronica mancanza di fondi?
Il rapporto sulla valutazione degli atenei pubblicato qualche giorno fa lancia l’allarme su quello che si sa da un pezzo: la laurea triennale è una leggenda: due terzi degli studenti impiega più di 5 anni per ottenerla, quando tutto va bene. Provate, in effetti, a spiegare ad un francese lo status dello “studente fuori corso” di 5, 6, 7 anni. Impiegherà parecchio a capirlo. Perché se ti chiami Jean François e vivi a Lione, mediamente riesci a conseguire una Licence, una laurea triennale, all’età media di 23 anni. Sempre meglio dei di 25 o 26 dello studente italiano medio che potremmo chiamare Paolo.
I dati Eurostat del 2010 relativi all’età media degli studenti del tertiary education level, l’istruzione universitaria, vedono l’età media dello studente universitario italiano aggirarsi intorno ai 23 anni, cifra inferiore a quella di paesi come Germania, Norvegia, Danimarca. Il dato apparentemente positivo cela in realtà la spiegazione che in questi paesi non è poi così raro imbattersi in uno studente che decide di iscriversi all’università dopo avere già trovato un impiego, evento più unico che raro in Italia. Questo testimonia allora lo scollamento tra mondo del lavoro e università, e i dati Eurostat a riguardo sono impietosi: la percentuale di occupazione tra i ragazzi italiani tra i 25 e i 29 anni che possiedono un’educazione universitaria è, secondo i dati del 2012, pari al 55%. Per la Francia la percentuale di attesta all’84,6.
Il nostro Paolo, insomma, rispetto a Jean François, rischia di uscire dall’università un po’ più grandicello e con la beffa di faticare decisamente di più per entrare nel mondo del lavoro. Qualche anno fa, Salvatore Settis lanciò una proposta di riforma di università dalle pagine di Repubblica, appello caduto nel vuoto, intenti com’eravamo a blaterare su edizioni di testi scolastici e grembiulini. La proposta ricordava proprio il modello francese di un’università molto più simile ad un liceo, dove lo studente è monitorato nella sua attività ed evita così di stare parcheggiato 10 anni nell’ovattato ambiente d’ateneo. L’idea di Settis prevedeva che qualora Paolo, iscritto al primo anno, non avesse raggiunto un determinato profitto durante l’anno accademico, avrebbe dovuto ripetere l’anno. Se l’anno successivo Paolo avesse ripetuto la cattiva performance, avrebbe perso il diritto a riscriversi in quello stesso ateneo. Sistema severo ma presumibilmente efficace. Resterebbe da vedere se agli atenei italiani, divenuti delle macchine mangia soldi, sarebbero disposti a rinunciare a lucrare sui fuori corso col sistema dell’aumento delle tasse di iscrizione che sono già le più alte d’Europa dopo quelle di Regno Unito e Paesi Bassi. Con relativa soddisfazione di Jean François che paga in media 200 euro all’anno e il sempre più disgraziato Paolo che ne sborsa, mediamente, 1100.
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