Il 9 ottobre del 1963, alle ore 22 e 39, una massa imponente di 50 milioni di metri cubi di acqua travolse l’abitato di Longarone, uccidendo 2000 persone. Una giornalista dell’Unità di quegli anni, Tina Merlin, ha raccontato la storia in un libro dal titolo “Sulla pelle viva. Come si costruisce una catastrofe. Il caso Vajont”, dal quale è stato tratto il toccante e vivo monologo teatrale di Marco Paolini. Un libro che ha visto la luce molti anni dopo, nel 1983, perché, a quanto pare, non si trovava un editore disposto a pubblicarlo. All’epoca la parola d’ordine era quella “del disastro naturale”, e chi poneva l’accento sulle tante incongruenze di quelle vicende veniva tacciato di attentare all’integrità e all’onore nazionale. Ma Tina Merlin, nei suoi articoli, aveva già previsto tutto, ben prima della tragedia. Come avevano già previsto tutto i geologi, e le varie commissioni scientifiche che si erano, nel corso degli anni, avvicendate per cercare di capire se quella montagna, il monte Toc, dall’aria così instabile, potesse reggere la potata di quel gigantesco invaso artificiale. Tina Merlin fu denunciata per procurato allarme e processata. Fu assolta, in realtà, perché già le prime frane stavano scuotendo, qualche anno prima del disastro, il monte Toc. I geologi, le varie commissioni scientifiche che avevano messo il guardia dai pericoli, furono messi in disparte, in un modo o nell’altro. La gente dei paesi limitrofi, al quale erano stati sottratti i terreni, creati disagi assurdi, e messo a rischio i beni e le vite, furono messi a tacere per il superiore interesse della nazione. A voglia di fare i comitati e le lotte contro il potere. Quell’enorme affare, che metteva insieme pubblico e privato, la società SADE con lo Stato, doveva essere portato a termine ad ogni costo, e nulla potevano i cafoni montanari contro quell’affare così gigantesco. L’Italia aveva un enorme bisogno di energia, essendo a corto di petrolio. Si pensava, in quegli anni, di farcela con l’idroelettrico. Una illusione. La tecnologia italiana era all’avanguardia nell’ingegneria civile, e la diga sul Vajont doveva essere un monumento al riscatto del paese dopo la terribile guerra. E, infatti, non fu la diga il problema. La diga fu eseguita a regola d’arte, al punto che ha resistito all’onda d’urto di quella mostruosa massa d’acqua. Eccola lì, la diga, la più alta del mondo all’epoca, incastonata, come per miracolo, tra la strettissima gola rocciosa, 261 metri di monumento all’avidità e all’egoismo feroce degli uomini. Eccola là, ancora in piedi, in tutta la sua inquietante bellezza. Pochi anni prima, nel 1954, una diga era crollata in Francia, per un cedimento strutturale, provocando centinaia di morti. E un’altra diga, pochi anni prima, proprio lì vicino a Longarone, era stata interessata da una frana. Per fortuna era una piccola diga, e morì solo il custode. Le avvisaglie c’erano proprio tutte, racchiuse nel nome, inquietante e significativo, di quella montagna. Il monte Toc. Ora, io vorrei raccontare le vicende che hanno portato gli uomini a sfidare la natura, il dio delle acque, dei boschi e dei monti, nel nome della rincorsa alla follia di un altro di dio, quello del denaro. Ma non mi è possibile. Non si può raccontare in una Agenda tutte le incongruenze, le manchevolezze, la folle rincorsa verso l’affare di questa storia. C’è il libro della Merlin, i vari documenti in rete, come lo spettacolo teatrale di Paolini, che consiglio vivamente di vedere. Se però potessi sintetizzare, con una sola frase, questa storia, direi così. Che la tragedia del Vajont non è altro che la storia di una gara a concludere un affare colossale prima che il disastro si manifesti, e smascheri l’imbroglio. Pazienza poi, il disastro, la distruzione, i morti, purché sia dopo la conclusione dell’affare. L’affare era la vendita, allo Stato, dell’impianto. Il bacino andava riempito e consegnato, prima che la montagna crollasse sul lago artificiale, vanificando l’affare. Erano i tempi della nazionalizzazione della corrente elettrica. L’Enel, dunque, acquistava l’impianto dalla società SADE, il cui fondatore era stato ministro in epoca fascista, il Conte Volpi, e il cui progetto fu approvato più o meno legalmente nei momenti di confusione della grande guerra. Ma questo fu solo il primo dei tanti punti oscuri, delle incongruenze, delle contraddizioni di questa storia, dove l’avidità degli uomini sovrasta il buon senso. I giorni precedenti al disastro, le scosse telluriche si erano susseguite senza sosta. La montagna stava scivolando, una frana profonda centinaia di metri e lunga un paio di chilometri si stava staccando dal suo substrato, come i segnali visivi apposti all’uopo dimostravano ampiamente. Era la sera del 9 ottobre del 1963. A Longarone, a valle, una parte delle persone dormivano, altri guardavano la partita di calcio, la finale della Coppa dei Campioni, nei bar del paese. Un tremito della terra, un rumore sordo e cupo, sempre più forte, un vento teso e umido. Quando la gigantesca frana del Monte Toc precipitò nel lago, provocò un’onda alta fino a 250 metri, che si divise in due. Un’onda andò a sbattere contro la montagna di fronte, sorvolando il paese di Erto e colpendolo solo di riflusso, distruggendo le cose ma risparmiando le vite. L’altra onda sorvolò la diga, e iniziò a correre nella stretta valle, preceduta da uno spostamento d’aria paragonabile ad una bomba atomica. Quattro minuti per salvarsi. Gli abitanti della parte alta del paese, svegliati dal frastuono, videro la parte bassa del paese scomparire sotto l’onda. Tutti sapevano che la montagna, ormai, era sul punto di crollare. Ci sono le carte del processo che lo dicono. Ma si sperava di non perdere l’affare. I sindaci dei paesi sulle sponde del lago emisero le loro ordinanze di allerta, le strade di accesso furono bloccate dalle forze dell’ordine. Il disastro era ormai alle porte. Ma l’affare doveva andare avanti, e nessuno pensò di far sgomberare il paese, Longarone, che era nel mirino dell’assassino. Giustizia vera, nonostante il lunghissimo processo e le blande condanne, non fu mai fatta, disse qualche anno fa il sindaco della ricostruita Longarone.
Fiorenzo Caterini, cagliaritano classe '65. Scrittore, antropologo e ambientalista, è studioso di storia, natura e cultura della Sardegna. Ispettore del Corpo Forestale, escursionista e amante degli sport all'aria aperta (è stato più volte campione sardo di triathlon), è contro ogni forma di etnocentrismo e barriera culturale. Ha scritto "Colpi di Scure e Sensi di Colpa", sulla storia del disboscamento della Sardegna, e "La Mano Destra della Storia", sul problema storiografico sardo. Il suo ultimo libro è invece un romanzo a sfondo neuroscientifico, "La notte in fondo al mare".
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