Devono aver fatto un bel rumore 260 milioni di metri cubi di pietre che sbattono violentemente sull’acqua contenuta nella diga. Deve essere stato tutto molto veloce – pare che la roccia viaggiasse a circa 108 chilometri orari – e terribile ed enorme ed impossibile da raccontare quello che successe alle 22.39 del 9 ottobre 1963 dalle parti del Piave. Quella sera, però in quella valle non passava lo straniero. Fu il boato più terribile che l’Italia dovette sentire: 1917 vittime di cui 1450 a Longarone, 109 a Codissago e Castellavazzo, 158 a Erto e Casso e altre 200 di altri comuni.Tutti abbiamo davanti quelle immagini in bianco e nero. Avevo quattro anni ed è un’età adatta ai giochi ma quelle immagini, quel silenzio, quelle lacrime sbiadite fanno parte della mia memoria.
Ricordo mia madre, i miei nonni, il tinello, il televisore Philco con la grande manopola del contrasto a sinistra, il centrino bianco, il silenzio. La televisione raccontava una tragedia. Era forse la prima volta che realmente si occupava di qualcosa di così enorme che solo la seconda guerra mondiale era riuscita a superare. Perché la strage del Vajont è stata una catastrofe, la morte di persone che vedevano il futuro davanti. E trovarono acqua e fango. Fango e acqua. Questo ricordo di quella sera buona per le castagne, ottima per ascoltare qualche favola e non per metterci dentro un’orda di acqua e fango a divorare le vite. Poi, tutti, cominciarono a raccontare la loro storia e la loro verità. Tutti pensarono di giustificarsi. Ci vollero anni per stabilire una verità ma si era capito, fin da subito, che la natura c’entrava poco con quei morti. Acqua e fango. Fango e acqua ben miscelate da chi non aveva calcolato bene, da chi non aveva messo in conto il corso naturale delle cose. Avevo quattro anni il 9 ottobre 1963. La mia prima ferita dentro un’anima che ne avrebbe visto tante. I primi schizzi di fango che arrivavano dentro la mia piccola innocenza.
Nato a Oristano. padre gallurese, madre loguderse, ha vissuto ad Alghero, sposato a Castelsardo e vive a Cagliari. Praticamente un sardo DOC. Scrive romanzi, canta, legge, pittura, pasticcia e ascolta. Per colpa del suo mestiere scommette sugli ultimi (detenuti, soprattutto) e qualche volta ci azzecca. Continua a costruire grandi progetti che non si concretizzano perché quando arriva davanti al mare si ferma. Per osservarlo ed amarlo.
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