( Alle 17,17 del 9 novembre del 1965 un misterioso contatto elettrico nella centrale di Niagara Falls, a due passi dalle cascate, mandò in mille pezzi il sogno americano di una società industriale invulnerabile. Ventisette milioni di americani capirono cosa significasse restare al buio. Il primo fu lo Stato di New York e scomparvero le luci di Manhattan, subito dopo toccò a molti altri per un’estensione di 130.000 chilometri quadrati. Il blackout durò dodici ore. Non ci fu panico. Molti giurarono di avere visto delle sfere luminose in cielo).
Se me lo ricordo? Come fosse ieri. Ero uno sbarbatello che doveva farsi largo e i negozianti della zona tra Mulberry e Mott Street, quando passavo a Little Italy per ficcarmi tra le lenzuola della vecchia Reese, ancora non uscivano dalle botteghe per inchinarsi, come fanno ora, al mio cappotto di cammello con il bavero di pelliccia. -Buongiorno, mister Colombo, ho da parte quelle arance per lei. -Bentornato, mister colombo, è bello rivederla da queste parti. -Che splendido aspetto oggi, mister Colombo. Allora ero solo Carmelo Colombo. Soprattutto per gli sbirri che mi avevano schedato dopo una spaccata da Tiffany: Samantha quell’anellino proprio lo voleva. E per il mio capo Johnny Scarfo io ero Pigeon, ma per fare prima mi chiamava Pig. Gli altri ridevano. E quando scoprii che Pigeon voleva dire piccione e Pig… beh, non c’è bisogno che ve lo dica, aspettai con pazienza che Johnny si ritirasse in pensione. Poi sono andato a trovarlo alla panchina di Bryant Park dove ogni mattina dava da mangiare agli scoiattoli. Quando mi ha visto si è messo a ridere. -Pigeon, che sorpresa, sei un uomo fatto ormai. -Sì, capo, e ho imparato bene l’americano. Ho tirato fuori il ferro e gli ho piazzato una palla tra gli occhi che gli ha congelato la risata. Ma allora ero ancora un suo uomo e obbedivo ai suoi ordini. Si stava bene, a quei tempi. E gli affari andavano bene. Johnson pensava solo al Vietnam, i frocetti comunisti e le puttanelle dei campus tenevano impegnata la polizia gridando contro l’escalation del vecchio Lyndon e noi ci facevamo i comodi nostri. La East Coast galleggiava sui dollari, si girava con auto lunghe un treno e dove guardavi vedevi i cantieri dei nuovi grattacieli. E agli americani piaceva spendere i loro soldi in eroina e altra robaccia così, e anche giocare d’azzardo e andare a puttane. Tutta roba che controllavamo noi. Poi c’erano da riciclare i dollari sporchi dell’industria “pulita”, da riscuotere il pizzo, da mandare teste mozzate di bestie a quelli che non investivano dove conveniva a noi, giusto perché capissero l’affanculo. Insomma, il lavoro non mancava. Il problema era che Danny Bonanno si era messo a rompere i coglioni. Si voleva espandere in Arizona e California. E sino a qui niente di male. Poi si era allargato ai traffici con Cuba, al formaggio, aveva anche il monopolio delle pompe funebri e nascondeva i morti nel doppio fondo delle bare. E anche questo si poteva ingoiare. Ma poi suoi cominciarono a farsi vedere ad Harlem, Coney Island o West Side: a New York, insomma. Fu allora che la Commissione creata anni prima dal grande Lucky Luciano decise di fermarlo per sempre. Quel tenore di Joe Valachi non aveva smesso di cantare, non si riusciva a farlo fuori, ci voleva prudenza. E così decisero di affidare l’incarico a uno che offriva garanzie ma che non dava nell’occhio perché non era tra i grandi della Famiglia. Proprio così, il mio capo Johnny Scarfo. Che a sua volta scelse l’uomo a cui affibbiare il lavoro con lo stesso ragionamento della Commissione e la mattina del 9 novembre chiamò me. -Senti, Pig. Mi serve uno che sappia usare il ferro e che sia poco conosciuto. -Capo, lo sai che io il ferro lo so usare. -Bene, allora stasera vai al South Bronx e… E fu così che quella sera andai dove Scarfo mi aveva ordinato, comprai un hot dog, una copia del New York Post e mi appoggiai al muro a fianco della porta del bordello da cui sapevo che Bonanno doveva uscire solo, senza scorta. Il Post aveva i suoi titoli strillati su scandali, corna e balle su fantasmi e marziani. Aveva a tutta pagina la foto di strane luci nel cielo, che potevano essere anche razzi sparati da una barca dell’East River. Senza parere controllai il ferro che tenevo nella tasca del cappotto e per il sicuro – non si sa mai, una pistola si può inceppare – il serramanico che avevo nell’altra tasca. Buttai nel cestino la carta unta dell’hot dog e ripresi a leggere. Ma non vedevo più niente. Il tramonto era già a buon punto e le luci non si erano accese. Era successo qualcosa, forse nell’isolato era saltato un fusibile. Ancora non sapevo che il fusibile era saltato in mezza America. Ben presto non ci fu più uno scampolo di sole e non si vedeva a un palmo dal naso. Neppure un lumino, ogni tanto i fari delle macchine, ma lì ne passavano poche. Da una finestra aperta sentivo risate di donna e gemiti di uomo. Buio sempre più pesto. Io però avevo degli ordini e da lì non mi muovevo. Sapevo che da quella porta poteva uscire solo Bonanno e a quella distanza, luce o non luce, potevo metterlo in un freezer della morgue basandomi soltanto sul rumore dei passi. Quando sentii la porta aprirsi, tirai fuori il ferro. I passi di Bonanno facevano un rumore strano, come se fosse scalzo. Che si fosse accorto di qualcosa? Quando nell’oscurità fui certo di avere individuato la testa, prima di sparare gli dissi quello che mi avevano ordinato di dirgli. -Danny, con i saluti della Famiglia. E rimasi un po’ stupito quando lo sentii rispondere. -Non sparare, noi venire in pace. -Che cazzo dici? E tirai tre volte il grilletto. Lo sentii sbattere la schiena contro il muro e poi afflosciarsi. Accesi lo zippo per constatare il decesso prima di correre a prendere l’auto. E rimasi a bocca aperta. Anziché sangue c’era un liquido verde, e anziché Bonanno c’era un affare strano con la pelle di coccodrillo e un casco spaziale ridotto a pezzi dai miei tre bullet corazzati. E dal casco rotto spuntavano due antennine da aragosta cubana. Aveva tre occhi da rana uno dei quali fuori dall’orbita e appeso per un filo di carne giallastra. C’era anche una specie di bocca che emetteva qualche bolla di liquido, ma quando avvicinai la fiammella per vedere meglio, sentii un blog-blog simile a un rantolo e poi niente più bolle. Io non mi spaventavo facilmente. Ma quando sentii alle mie spalle la voce di Bonanno, sentii i capelli drizzarsi con tutta la brillantina che andava via. -Parola mia, non ho mai visto niente di più schifoso. Dev’essere quello strano tipo che nella stanza accanto alla mia dava giù come un matto con la biondina del Wisconsin. Mi voltai e lo vidi chinato dietro di me che guardava incuriosito l’alieno. Continuò a parlarmi senza guardarmi in faccia. -Perché l’hai fatto fuori? Me lo chiese così per chiedere, ma si vedeva che non gliene fregava niente. Aveva il sorriso beato della sigaretta dopo la scopata, il cappotto tenuto con un dito a gancio che gli pendeva dietro le spalle e già si guardava intorno cercando la sua auto. Ebbi un’idea e gli risposi indicando il cadavere dell’alieno. -Guardi, signore! Mi sembra che si stia ancora muovendo. Si inchinò di nuovo e fu allora che gli poggiai la canna sulla nuca e sparai altri due colpi. Il secondo così, giusto per spararlo. La testa gli era esplosa al primo e il sangue e il cervello si erano mischiati con quelle altre porcherie del diverso. Quel bastardo di alieno a momenti mi faceva mancare il colpo e mi metteva in guai seri con il capo. Ma guarda un po’, vengono sulla terra con i dischi volanti per scoparsi le nostre puttane americane. “Io venire in pace”. Ma vaffanculo! Ficcai il cadavere di Bonanno nel bagagliaio della mia Chevrolet rossa e lo portai dal capo per mostragli il mio lavoro. Lui controllò, poi lo presero i ragazzi e credo che ora sia nelle fondamenta di un nuovo teatro di Broadway. L’alieno lo lasciai lì e tornai il giorno dopo per controllare se qualche ficcanaso aveva fatto capolino. Tutto ok. In quella zona la gente si fa i fatti suoi. E poi lì non ci sono cani. Ci sono iene. Una di quelle bestie stava finendo di rosicchiare uno strano osso, a torciglione, con dei brandelli di carne giallastra. Dell’alieno nessun’altra traccia. O era tutto nella pancia delle iene o qualche pezzo l’avevano preso quelli dell’Area 51 per studiarlo meglio. Già, perché voi ci credete che la luce è mancata per un corto circuito? Secondo me l’hanno tolta quelli del governo per nascondere meglio la visita aliena. Non lo freghi così Carmelo Colombo.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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