Il buio. Lo avete mai attraversato, lo avete mai toccato, percepito, abbracciato, temuto? Vi siete mai chiesti cosa ci può essere dietro lo sgomento del buio? C’è il terrore di uscire, dopo quell’esperienza, completamente diversi. C’è il rischio di non essere più come prima. Di non essere più prima. Di non essere. Il 9 maggio del 1978 ho scoperto il buio. Mi ha prima sfiorato, annusato, si è avvicinato e mi ha avvolto tra il silenzio e l’atrocità. Ho camminato tra Aldo Moro e Peppino Impastato. Il primo ucciso dalle brigate rosse, il secondo dalla mafia. Ecco cosa è il buio: l’impossibilità di trovare una soluzione e non solo subito. E’ la quasi certezza di brancolare per giorni, mesi, anni. Avevo 19 anni e la speranza di diventare giornalista. Immaginavo di potermi iscrivere all’Università di Urbino, lavorare in una redazione, raccontare le cose, metterci dentro i miei occhi e gli occhi degli altri. Dipingere i colori della vita. Perché la vita, a 19 anni era bellissima e radiosa, tra Urbino, gli amici e gli amori. Il buio divora tutto. Schiaccia le persone e le storie, recide il futuro. Quel buio, quel maledetto e bastardo buio ha reciso il cordone ombelicale con la mia tarda adolescenza e mi ha costretto a diventare adulto senza poter continuare a sorridere. Quel buio, noi di quella generazione, ce lo portiamo appresso e ce lo porteremo per sempre. Perché tutto divenne grande, atroce, assurdo, cattivo. Tutto divenne politico a discapito del privato, tutto divenne ideologico a discapito delle soluzioni pragmatiche. Il buio ha dipinto la tela della nostra esistenza e per quanto abbiamo tentato di metterci nuovi colori, quella patina maledetta è rimasta a rimarcare il taglio netto tra il bianco e il nero, tra il buio e la luce. Quel giorno, il giorno di Moro e di Peppino Impastato, ero in radio. Cominciammo la trasmissione intorno alle 11.00 e provammo a razionalizzare a scacciare il vuoto che ci buttava sopra un muro terribilmente pericoloso. Avrei voluto gridare tutto il mio disprezzo, la mia paura, avrei voluto urlare che tutto questo non poteva essere costruito in nome mio, non si poteva appiattire la bella gioventù di uno che voleva diventare giornalista e raccontare le storie con i colori in tasca. Quel buio ci ha avvolto e dentro quel buio ho un ricordo nitido: il quotidiano La Repubblica uscito il 10 marzo. Le prim9 9 pagine sono dedicate all’assassinio di Aldo Moro. Solo a pagina dieci, una notizia apparentemente innocua. Parla di un ragazzo morto, forse suicida, un comunista di democrazia proletaria che quasi probabilmente stava preparando un attentato con il tritolo. Il buio più buio e più bastardo, più cattivo e perfido. Il terrorismo è stato sconfitto, ma non la mafia. Quel buio persistente che ci accompagna senza che neppure, a volte, riusciamo a rendercene conto. Sono figlio di un buio che parte da lontano. Ho sempre molti colori in tasca e le tele disegnano storie. Le storie degli uomini immersi in un buio diverso dal mio. Non scrivo per mestiere ma per scacciare quella patina di nero che mi porto dentro dal giorno di Moro e di Impastato. Ed ancora non sono riuscito a disegnare su tele completamente bianche. Ho il buio come fratello, che tristemente mi accompagna. Sono passati quarant’anni da quello strano e assurdo 9 maggio 1978. Quando mi rubarono la giovinezza.
Nato a Oristano. padre gallurese, madre loguderse, ha vissuto ad Alghero, sposato a Castelsardo e vive a Cagliari. Praticamente un sardo DOC. Scrive romanzi, canta, legge, pittura, pasticcia e ascolta. Per colpa del suo mestiere scommette sugli ultimi (detenuti, soprattutto) e qualche volta ci azzecca. Continua a costruire grandi progetti che non si concretizzano perché quando arriva davanti al mare si ferma. Per osservarlo ed amarlo.
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