Erano tempi sicuramente diversi da quelli di oggi. E noi, giovani di allora, avevamo in tasca le nostre forti verità. Alla fine degli anni settanta divenne famosa, in Germania, una banda il cui nome sarebbe divenuto in seguito un simbolo per chi gravitava nella sinistra cosiddetta “extraparlaemtare”. Parlo della banda Baader Meinhof, nata sulla scia delle proteste del 1968 e divenuta popolare perché organizzò un’evasione di un “compagno” picchiato dalle guardie durante una rivolta. L’azione non finì benissimo: una delle guardie venne ferita con un colpo di pistola e il gruppo dovette espatriare. Andreas Baader verrà arrestato. Anche Ulrike Meinhof, brava giornalista e scrittrice, finirà successivamente in carcere. Quattro componenti della banda, mentre sono reclusi, cominciano a protestare per il loro isolamento: ci sarà uno sciopero della fame dove uno dei componenti della banda muore di stenti. Gli altri vengono trasferiti a Stoccarda, nel carcere di massima sicurezza di Stammheim dove, il 9 maggio 1976 Ulrike Meinhof viene trovata morta nella sua cella. Si dirà “suicidata” ma tutti pensarono ad un “omicidio di Stato”: Me li ricordo molto bene quei giorni, seppure avessi soltanto 17 anni, capelli lunghi e ondulati e buona dose di ingenuità davanti agli occhi. Capii, per la prima volta, che non era semplice pesare la verità e capii, soprattutto, il potere di uno Stato e il peso del suo silenzio. Cominciai in quel periodo a frugare tra le storie di chi finiva in carcere.
Nato a Oristano. padre gallurese, madre loguderse, ha vissuto ad Alghero, sposato a Castelsardo e vive a Cagliari. Praticamente un sardo DOC. Scrive romanzi, canta, legge, pittura, pasticcia e ascolta. Per colpa del suo mestiere scommette sugli ultimi (detenuti, soprattutto) e qualche volta ci azzecca. Continua a costruire grandi progetti che non si concretizzano perché quando arriva davanti al mare si ferma. Per osservarlo ed amarlo.
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