L’ufficiale delle SS tedesche nacque a Stoccarda nel 1907 e morì sempre in Germania il 9 febbraio del 1978. Tra la nascita e la morte, la responsabilità di crimini atroci, quali il massacro delle Fosse Ardeatine, il rastrellamento del Quadraro, l’estorsione di oro agli ebrei del ghetto di Roma e la deportazione di più di mille di loro nel campo di concentramento di Auschwitz. Un uomo talmente orribile che meriterebbe solo l’oblio. Uno di quei personaggi sui quali far calare il silenzio. Un essere da dimenticare e non rievocare nemmeno in occasione di un’imprecazione. Ma c’è qualcosa che a 38 anni dalla morte rende necessario il ricordo di Kappler e delle sue atrocità: il dovere della memoria storica e il tributo alla celebrazione delle vittime.
Alla fine del conflitto Kappler era stato arrestato dalle truppe inglesi, processato da un tribunale militare italiano e condannato all’ergastolo. E, dopo aver soggiornato in un paio di carceri militari, fu infine trasferito all’ospedale del Celio a causa di un tumore nell’intestino che rendeva le sue condizioni di salute mal conciliabili con la vita della prigione. In quell’occasione l’allora Ministro della Difesa Arnaldo Forlani aveva disposto la variazione della posizione di Kappler, facendola transitare da “detenuto” a “prigioniero di guerra“.
La notte di ferragosto del 1977 Annaliese Kappler, moglie del colonnello, avvolse il marito in una coperta, insieme percorsero silenziosamente le scale deserte del Celio e, a bordo di una Fiat 132 rossa, scapparono in Germania confidando su 7 ore di vantaggio che separavano la loro fuga dal controllo del mattino successivo. Determinante la disposizione, impartita ai carabinieri di guardia, di attenuare la vigilanza. Il governo italiano chiese la restituzione del fuggitivo, inutilmente. La Germania rifiutò ribadendo che il diritto alla fuga era garantito a Kappler proprio dallo status di “prigioniero di guerra”. Ma l’Italia non fu stringente nella sua richiesta, infatti se Kappler fosse morto in una prigione italiana, i rapporti tra il nostro governo e quello tedesco avrebbero attraversato momenti di difficoltà.
Per la giornalista Stefania Limiti e lo storico Aldo Giannuli fu decisiva per fuga di Kappler una struttura nascosta dei servizi segreti italiani denominata “Anello”, che assicurava la restituzione dell’ufficiale per un ingente prestito di denaro garantito all’Italia da un contratto fra i due governi. Eppure se tanto era stata lodevole quell’Italia che aveva condannato l’ufficiale tedesco, altrettanto indecente era stata quella che si era resa complice della sua fuga. Kappler morì nella sua terra, circondato dall’amore di amici e parenti, a differenza delle vittime di cui era stato il carnefice.
E, insieme alla memoria della vita, delle azioni disumane e della morte di Kappler, bisogna anche ricordare le responsabilità di un’Italia che ha dato prova di debolezza e che, incurante dei caduti, si è chinata davanti a un effimero tornaconto.
La piccola Romina nasce nel '67 e cresce in una famiglia normale. Riceve tutti i sacramenti, tranne matrimonio ed estrema unzione, e conclude gli studi facendo contenti mamma e papà. Dopo la laurea conduce una vita da randagia, soggiorna più o meno stabilmente in varie città, prima di trasferirsi definitivamente ad Olbia e fare l’insegnante di italiano e storia in una scuola superiore. Ma resta randagia inside. Ed è forse per questo che viene reclutata nella Redazione di Sardegnablogger.
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