Io me lo sono immaginato così, il sogno ricorrente di Antonio Pettigrew. Vivere in una bella, sfarzosa villa, ammirata da tutti, con un bel giardino davanti ed infissi di lusso. Ma poi una volta entrati dentro, quella bella casa si trasformava in povera, persino squallida, con la muffa alle pareti e le travi del soffitto corrose dai tarli. Bella e ammirabile fuori, povera e decadente dentro. Antonio Pettigrew è stato uno dei più forti quattrocentisti degli ultimi decenni. Campione del mondo a Tokio nel 1991, pilastro insostituibile della 4 x 400 americana 3 volte campione del mondo, nel 2000, a Sidney, coronava il sogno della carriera di ogni atleta, vincendo, sempre con la formazione statunitense della 4 x 400, con il grande Michael Johnson in ultima frazione, la medaglia d’oro alle Olimpiadi. Chissà quante volte, nei suoi sogni di bambino, e nella sua speranza di atleta, tra mille sacrifici e mille fatiche, aveva sognato di mettersi al collo la medaglia d’ora olimpica. Una carriera sfolgorante, considerando che quella dei quattrocentisti, in una gara logorante non a caso definita come “il giro della morte”, è spesso piuttosto breve. Invece Antonio Pettigrew è stato protagonista per oltre un decennio ai massimi livelli mondiali. Al termine della sua carriera, Antonio Pettigrew decise di restare nel mondo dell’atletica come allenatore. C’era una tarlo però che, nel frattempo, si era insinuato nella sua mente. La mente di Antonio non riusciva a liberarsi di un peso insopportabile. Poi un giorno accadde qualcosa. Alcuni suoi vecchi compagni della staffetta campione del mondo, furono trovati positivi all’antidoping, e squalificati, con le varie vicende dei corsi e dei ricorsi che sarebbe troppo lungo qui ricostruire. Come un tappo saltato, in una udienza nel 2008, contro il suo ex – allenatore Trevor Graham, Antonio ammise di aver fatto anche lui uso, come i suoi tre compagni di squadra dell’epoca, i gemelli Harrison e Jerome Young, di doping, nel suo caso di Epo e di ormone della crescita. Antonio Pettigrew, a differenza dei suoi ex compagni non era mai stato “pizzicato”, l’aveva sempre fatta franca, era uscito indenne dalle maglie dell’antidoping. Ad Antonio bastava aspettare ancora un po’, per far decorrere i termini ed impedire forme di giustizia retroattiva, ma non lo fece. Spinto da un insopprimibile bisogno, preferì ammettere cose che, altrimenti, nessuno avrebbe mai scoperto. Fu così privato di tutte le medaglie vinte, quelle dei tre mondiali, quella prestigiosa delle Olimpiadi di Sidney, e persino del record mondiale della staffetta conseguito nel ’98. Che strana sensazione. Aver gioito, aver raggiunto lo scopo della propria vita, aver festeggiato, pazzo di gioia per tutto quello, e poi dover tornare indietro con la mente e annullare quella gioia, quei festeggiamenti, quella soddisfazione. Che strano, dover ricostruire la memoria, dover rielaborare fatti entrati, ormai, nella struttura portante della propria essenza. Io sono un campione del mondo, io sono un campione olimpico. No. Ma Antonio, forse, campione non si era sentito mai. C’era sempre quel tarlo a tormentarlo, quel verme immondo a bucare il suo cervello. Le sue mani frugavano nella immondizia, senza trovare nulla che potesse redimerlo, che potesse giustificare quella gloria immeritata. Antonio, forse, campione davvero non si era sentito mai, forse perché aveva anche una coscienza. Il giorno della conquista del suo più grande sogno, l’oro olimpico a Sidney, Antonio fece una cosa strana, ma davvero. Prese la sua medaglia, feticcio che ogni atleta conserva gelosamente per idolatrarla tutta la vita. Prese la medaglia, e la gettò tra il pubblico. Finalmente libero, libero da quel peso, dopo la confessione, tornato un cittadino qualunque, senza più gloria ed onori, Antonio riprese a fare quello che gli era sempre piaciuto fare: allenare, far crescere giovani atleti e coltivare i veri valori dello sport. Ma per uno strano scherzo del destino, o per inseguire falsi sogni di gloria, o perché convinto dal suo ex allenatore, o perché non c’era altra soluzione per far valere il proprio talento, comunque a detta dei tecnici grandissimo, Antonio aveva deviato da quei valori, aveva sbagliato strada. La casa, bella fuori e povera dentro, era ormai completamente corrosa dai tarli. Antonio guardò il soffitto che sfarinava. Aveva sprecato il suo talento, aveva buttato via gli anni migliori della sua vita, e non era neppure più tanto credibile per quei ragazzi che, nella pista, una volta, lo seguivano perché grande, grandissimo campione. Quanta fatica, quanta pazienza dover ricostruire tutto, ricominciare d’accapo. Antonio Pettigrew, il 9 agosto del 2010, fu ritrovato morto, imbottito di sonniferi, all’interno della sua auto, vicino alla sua pista d’atletica.
Fiorenzo Caterini, cagliaritano classe '65. Scrittore, antropologo e ambientalista, è studioso di storia, natura e cultura della Sardegna. Ispettore del Corpo Forestale, escursionista e amante degli sport all'aria aperta (è stato più volte campione sardo di triathlon), è contro ogni forma di etnocentrismo e barriera culturale. Ha scritto "Colpi di Scure e Sensi di Colpa", sulla storia del disboscamento della Sardegna, e "La Mano Destra della Storia", sul problema storiografico sardo. Il suo ultimo libro è invece un romanzo a sfondo neuroscientifico, "La notte in fondo al mare".
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