A dire la verità volevo parlare dell’8 settembre 1966, esordio di Star Trek, una delle più belle serie televisive mai ideate da mente umana. L’8 settembre del ‘43, quello dell’armistizio annunciato da Badoglio alla radio, mi fa venire il malumore. Mi dipinge davanti agli occhi l’immagine stracciona e vigliacca di un’Italia che più invecchio e più amo e che vedo ora in certe pieghe così simile ad allora. E figuratevi quanto mi è fastidiosa questa insensata antinomia che vivo tra ragione e sentimento. Quando il Fascismo finì di portarci alla rovina, mentre noi ci spellavamo le mani ad applaudire Mussolini, Vittorio Emanuele, dopo averlo messo al comando e appoggiato in ogni modo, lo fece fuori con colpo di stato riuscito fortunosamente. Neppure quello sapeva fare bene, la dinastia dei re codardi e uccisori di operai. Anche l’Unità d’Italia, o meglio, l’annessione dell’Italia al Piemonte, secondo me le è venuta di culo. Comunque, per tornare all’8 settembre del 1943, il re strappò un pasticciato armistizio con inglesi e americani. E subito dopo, insieme a quell’altro cuor di leone di Pietro Badoglio (una delle figure più squallide della storia militare di ogni tempo), se ne fuggì abbandonando l’esercito e il popolo in mano ai tedeschi e a fascisti ancora più incattiviti e desiderosi di massacro: senza lasciare ordini chiari, senza neppure ottenere dai nuovi alleati una immediata protezione del suolo della patria. Insomma, altro che abdicazione a favore del figlio ed esilio. Roba da fucilarlo alla schiena, per non fare troppo schifo con la sua faccia a quelli del plotone, se io non fossi contro la pena di morte. Ma mentre – per non pensare a tutto questo e ai troppi emuli attuali del Re e forse anche del Duce – stavo per parlarvi del capitano Kirk, del signor Spock e dell’astronave Enterprise, mi è all’improvviso venuto in testa Alberto Sordi. Già, l’Albertone nazionale, quello che quando Nanni Moretti ha detto “Ve lo meritate, Alberto Sordi”, ho pensato a quanto siamo disperatamente antipatici e perdenti noi di sinistra. Ho pensato a “Tutti a casa”, il capolavoro di Luigi Comencini del 1960. Uno dei film più belli del dopoguerra italiana. Non era più l’epoca piena del neorealismo cinematografico, ma forse questo lavoro ne è stata l’espressione più alta. E infatti la classe politica, anche in quella occasione, se ne mostrò infastidita. “I panni sporchi bisogna lavarli in casa”, aveva già detto Andreotti a proposito dell’”Umberto D.” di De Sica e Zavattini, e anche in questa occasione si mostrò ostile. A esempio, come ministro della Difesa, rifiutandosi di mettere a disposizione alcuni carri armati per la scena finale delle Quattro giornate di Napoli e costringendo Comencini a usare carri armati di legno. Dopo quella della “Grande guerra” di Mario Monicelli, questa viene da molti critici ritenuta tra le più alte interpretazioni di Alberto Sordi, dove ha forse raggiunto vertici non eguagliati neppure nelle grandi occasioni offertegli da Fellini con “Lo sceicco bianco” e “I vitelloni”. Quel film e quella tragica, comica, magnifica maschera italiana rendono alla perfezione quello che siamo e quel pezzo della nostra storia. Sordi è un sottotenente dell’esercito di servizio in Veneto all’annuncio dell’armistizio. Si unisce prima al grido di “la guerra è finita”. Ma poi, quando si trova con i suoi uomini sotto il fuoco dei tedeschi, capisce che la realtà è drammaticamente diversa. Memorabile per l’icastica figura della criminale confusione in cui il re e Badoglio lasciarono i nostri soldati, la frase del sottotenente urlata a un superiore al telefono: “Accade una cosa incredibile: i tedeschi si sono alleati con gli americani”. Poi comincia l’inevitabile diserzione, il “tutti a casa” in un viaggio picaresco attraverso un’Italia in uno straziante scompiglio. Il tenente rifiuta di unirsi ai partigiani, guarda senza intervenire una ragazza ebrea presa dai tedeschi. Quando arriva a casa, il padre (Eduardo de Filippo) vorrebbe farlo arruolare per soldi con i fascisti della Rsi. Se ne va di casa e riprende il viaggio sino a quando, catturato dai fascisti, viene consegnato ai tedeschi e messo a lavorare tra le macerie di Napoli. Sono i giorni delle Quattro Giornate. Il suo amico viene ucciso dai nazisti e il tenente sillaba allora la frase più semplice e forte nella sua verità che un uomo possa dire, quella che nella storia di tutti i tempi ha suscitato le rivoluzioni: “Non si può stare sempre a guardare”. Impugna la mitragliatrice e si unisce ai rivoltosi. E’ la nostra storia, di quelli che siamo. Siamo gente capace di perdere la patria ma sappiamo anche ritrovarla. Siamo tutti Albertone. O forse lo sono solo io. Ma mi piace.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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