Del Re degli Unni, Attila, tutti noi conosciamo cose imparate alle elementari: che era sanguinario, che era chiamato il flagello di dio, che fu fermato da papa Leone con l’aiuto della croce, che dormiva a cavallo, che teneva le bistecche sotto la sella, che distrusse Aquileia stimolando, indirettamente, la nascita di Venezia.
Altre cose, meno note e comunque controverse, si sposano con la figura sinistra della leggenda: mangiò i suoi due figli dopo averli fatti arrostire nel miele (e mi ricorda qualcosa), morì per un’emorragia interna, fu sepolto accanto a un fiume dentro tre bare, la prima d’oro, la seconda d’argento, la terza di ferro. Coloro che scavarono la fossa, si narra, furono uccisi dalle guardie della scorta che vigilavano sul loro lavoro. Le guardie della scorta vennero poi massacrate appena fecero ritorno a Palazzo, in modo che nessuno, neanche i loro carnefici a corte, sapessero dove esattamente era stato sepolto il loro Re. L’erba avrebbe ricoperto tutto molto in fretta, aiutata dal passaggio ripetuto dei cavalli della scorta sopra la sepoltura: zoccoli, letame e terra pressata, l’alleanza che per milioni di anni ha consentito alle praterie e ai grandi erbivori di prosperare, evolvendo insieme. Buffo, per uno considerato talmente feroce che, dopo il suo passaggio, nemmeno l’erba ricresceva più.
Attila, celebrato nelle saghe germaniche e vichinghe con toni diversi da quelli familiari a noi latini, è diventato il simbolo stesso della furia mostruosa e imprevedibile che può porre fine al mondo come lo si è conosciuto, dopo una vita passata a pensarlo indistruttibile. Attila, che in realtà ebbe un ruolo abbastanza marginale nel crollo dell’Impero romano, sfondato dal suo stesso peso e abbattuto principalmente dalla spinta dei Visigoti, iniziata ben prima dell’incontro di Mantova tra il Re unno e Papa Leone. Anche se i Visigoti premevano al confine perché spinti a spostarsi verso ovest e verso sud proprio dall’avanzata degli Unni. Potremmo chiederci da cosa scappavano gli Unni ma mi viene in mente Vulvia, ed è meglio lasciar stare.
Questo movimento di popoli, questo continuo impasto di civiltà che fioriscono una sulle ceneri dell’altra, ci ricorda che anche il mondo solido di cui facciamo parte è effimero e che, rispetto alla pretesa che nulla cambi somigliamo agli abitanti di Recoaro, blanditi da Zaia sul fatto che per difendersi si può essere anche razzisti. Il punto non è nemmeno se si possa o non si possa essere razzisti: il punto è vedere o non vedere i segni del crollo e i segni del successivo impasto.
Per molti questo rimescolamento è un’aberrazione da tener lontana. Per me è invece l’unica strategia escogitata finora dalla natura per continuare a rivestire la crosta terrestre.
Nacqui dopopranzo, un martedì. Dovevo chiamarmi Sonia (non c’erano ecografi) o Mirko. Mi chiamo Luca. Dubito che, fossi femmina, mi chiamerei Sonia. A otto anni è successo qualcosa. Quando racconto dico sempre: “quando avevo otto anni”, come se prima fossi in letargo. Sono cresciuto in riva a mare, campagna e zona urbana. Sono un rivista. Ho studiato un po’ Filosofia, un po’ Paesaggio, un po’ Nuvole. Ho letto qualche libro, scritto e fatto qualche cazzata. Ora sto su Sardegnablogger. Appunto.
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