Sono pochi o sono sufficienti cinquant’anni per applicare la regola storiografica secondo cui ogni fatto va contestualizzato, incorniciato nel periodo in cui avviene?
Trovo un pezzullo datato 7 luglio 1971 nelle cronache nazionali del Corriere della Sera.
Porta questo titolo: “Neutrale la Chiesa sulla pena di morte”.
Il 7 luglio 1971 io avevo poco più di un mese di vita e quel titolo mi ha fatto sentire di colpo molto più vecchio di quanto sia. Vado a leggere le poche righe dell’articolo, credendo che quel titolo possa essere una forzatura. Quel Corriere lo dirige ancora Giovanni Spadolini, ma a breve arriverà al vertice Piero Ottone e il quotidiano di via Solferino assumerà posizioni più radicali, orientate a sinistra.
L’articolo, in realtà, riporta una presa di posizione dell’Osservatore della domenica, house organ vaticano, affidata alla penna del teologo Ferdinando Lambruschini, che al tempo era arcivescovo di Perugia. L’assassinio di Milena Sutter, avvenuto un mese prima, aveva riacceso il dibattito sulla pena di morte e il pensiero cattolico non aveva potuto esimersi dall’intervenire. Nel breve pezzo del Corriere appaiono molti virgolettati e, sostanzialmente, si comunica il senso di una quasi annoiata equidistanza della Santa Romana Chiesa rispetto alla pena capitale.
Possibile, continuo a chiedermi, che sia vero?
Possibile che nel 1971, tre anni dopo il 1968 e duecento anni dopo Cesare Beccaria, davvero qualcuno scrivesse queste enormità per conto del Vaticano? Certo, la Chiesa ha abolito la pena di morte molto più tardi di tanti altri Stati e la storia di Mastro Titta passa ponte forse la fa ancora sentire in colpa, però ho molta difficoltà a credere in una neutralità del Papa rispetto alla sedia elettrica.
Vado nel sito internet dell’Osservatore romano, poi mi infilo nell’archivio storico: ottimo, ci sono tutte le riproduzioni delle vecchie uscite dell’Osservatore della domenica. Consulto quella del 4 luglio, ma non ci trovo nulla: vuoi vedere che è una bufala?
Poi leggo la copia dell’11 luglio ed eccolo là, il pezzo di Lambruschini, grande da occupare una pagina intera: l’uscita dell’Osservatore domenicale veniva annunciata con una serie di anticipazioni dei contenuti e questo spiega perché il Corriere conoscesse il testo dell’articolo già dal 7 luglio.
Il commento di Lambruschini è scritto con un sussiego e un distacco a mio modo di sentire insopportabili. L’arcivescovo non nasconde di essere infastidito dagli strattoni che la Chiesa è costretta a subire da coloro che vorrebbero farle prendere posizione, da una parte o dall’altra. Poi ammette che in effetti in quel decalogo consegnato a Mosè era incluso anche il divieto di ammazzare, però l’arcivescovo aggiunge che in tanti passi delle sacre scritture si parla della legittimità della condanna a morte. In definitiva, dalla Chiesa romana non si poteva pretendere una presa di posizione: a lei andava bene qualunque opzione, sia che la pena di morte restasse in vigore sia la libera scelta di quegli Stati in cui rimaneva in vigore.
E se anche questa seconda opzione era tollerata, io posso permettermi di titolare questo pezzo scrivendo che la Chiesa del 1971 era favorevole alla pena di morte. Anche se Lambruschini, senza esplicitarla, una sua idea personale sulla questione dice di averla. E io non fatico ad intuirla, perché ad un certo punto della sua predica scrive che sulla pena di morte “Beccaria ha sparato a zero”.
Anni fa, nella zona in cui vivo, ci fu un brutto fatto di cronaca: un commerciante investì ed involontariamente uccise un ladro che scappava dopo aver commesso un furto. Erano già attivi i social e ricordo che una buona parte dei commentatori legittimava il diritto di farsi giustizia in ogni modo possibile, se si viene danneggiati, anche eliminando un ladro. Ricordo che tra quei commentatori ve ne erano diversi che avevo visto, nelle mie rare apparizioni alla messa, seduti nei primi banchi del tempio.
Nella contesa tra il Russell che definisce il suo agnosticismo nel saggio Perché non sono cristiano e il Benedetto Croce che replica qualche anno dopo con Perché non possiamo non dirci cristiani, io ho sempre pensato di non essere abbastanza cristiano per credere nel mistero della fede ma sufficientemente cristiano da credere fermamente nel perdono e nella ingiustizia di una condanna a morte.
Chiunque la decida e la esegua.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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