Dopo 130 anni di colonizzazione e a otto dall’inizio della guerra d’Algeria Charles de Gaulle chiamò a raduno la nazione: chiedeva ai francesi di andare a votare, l’ 8 Aprile 1962, per decidere il destino di quel paese che nel 1830 era stato occupato con motivazioni ufficiali irrisorie e diventato, qualche anno dopo, territorio metropolitano francese. Questo era l’Algeria per la Francia, molto più di un “semplice” protettorato.
Due giorni prima, il 6 Aprile, De Gaulle pronunciò un discorso che invitava a votare a favore dell’indipendenza dell’Algeria, come stabilito dagli accordi di Evian. De Gaulle e la maggioranza dei francesi residenti in Francia ritenevano chiusa l’esperienza coloniale, sulla via del tramonto anche nel resto del globo. Di parere diverso i coloni d’Algeria che ostacolarono gli accordi con proteste e attacchi terroristici. Nonostante il discorso De Gaulle fosse un chiaro sì all’indipendenza, non nascondeva un tentativo di presentare una sorta di volto umano del colonialismo: accanto agli annosi problemi infatti, sottolineava “i risultati che molto spesso hanno giovato all’Algeria”. Gli algerini avrebbero avuto diritto di parola solo in un secondo momento, nel mese di Luglio. Non è un’esagerata figura retorica quella del paragone tra l’esperienza coloniale e il trauma psicologico, come ebbe infatti a scrivere Frantz Fanon. Quando chiesi ad un algerino come mai ricorressero al francese per pronunciare i numeri durante conversazioni tra connazionali che si svolgevano in arabo, rispose: “C’est la colonisation”. Chiuse le ostilità nel 1962, le conseguenze dell’ultracentenaria presenza francese in terra algerina, saranno visibili ben oltre, nella cultura e non solo. Per noi europei il colonialismo è stata una fase, una parentesi che abbiamo aperto e deciso di chiudere per mezzo di trattati, accettando di non voler vedere e capire il dopo. Ora che sono in molti a collegare la minaccia terroristica con il nostro poco glorioso passato, quella parentesi è da considerarsi riaperta.
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