“Mi chiamo Salvatore Usala, felicemente sposato da 39 anni, da circa dieci ho un amante di nome SLA. Mia moglie non gradiva ma dopo ci ha fatto l’abitudine”. Chiedeva, Usala, nella sua lettera a Matteo Renzi, una cosa semplice: poter essere assistito nell’ambiente domestico, poter vivere ciò che restava da vivere in famiglia.
Usala parlava attraverso uno speciale computer. È stato un rompicazzi per quella politica che ama tergiversare, rimandare, trincerarsi dietro la burocrazia. Usala si piazzava all’aperto, con qualsiasi tempo, giorno e notte davanti ai palazzi del potere con il suo lettino e i respiratori, il gruppo elettrogeno e tutto ciò che serviva per tenerlo in vita. E aspettava che presidenti, assessori e quant’altro ci fosse di istituzionalmente rilevante gli concedessero udienza. Lo ha fatto a Cagliari, lo ha fatto a Roma. E sapeva bene che, semmai fosse riuscito a ottenere qualcosa, non ne avrebbe beneficiato personalmente. Sapeva che il tempo stava per scadere. Salvatore Usala ha smesso di lottare il 6 settembre 2016. Aveva 63 anni.
Dimenticare Salvatore potrebbe essere una questione di tempo. A meno che il testimone non venga raccolto finalmente da tutti noi e non da singole persone che continuiamo a guardare con quel sentimento di pietà pericoloso perché annacqua la sostanza delle cose, perché ci indirizza verso la strada della rassegnazione. Se questa disperata ricerca del diritto alla normalità, di condizioni di vita accettabili, se queste battaglie avranno la forza di farci indignare sul serio, avremmo fatto un passo decisivo verso un mondo migliore, dove indietro non resta nessuno semplicemente perché non è consentito farlo.
La nostra macchina del tempo, stavolta, si ferma a breve distanza da oggi. Perché la vita ha preso a correre con tanta velocità che si rischia di considerare passato e dimenticare ciò che pure è successo ieri.
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