Alle nove di sera solitamente si sta a casa, si cena oppure si è già cenato. Magari in famiglia attorno al fogolar, il cuore della casa friulana. Alle nove di sera ti togli la giornata di dosso, chiudi i problemi fuori dall’uscio e ti inondi di quella serenità che anticipa la notte. Il 6 maggio del 1976, alle 21,00, a nord di Udine, un boato spezza la quotidianità di migliaia di famiglie. Una scossa di magnitudo 6.5, lunga 57 secondi, praticamente un minuto. Il tempo è relativo, un minuto è nulla nello scorrere della giornata, ma in quel momento il terrore dilata ogni secondo.
Il terremoto in Friuli. Si è svegliato l’Orcolat, il mostro che secondo la tradizione popolare friulana, vive rinchiuso nei monti della Carnia e il suo agitarsi, fa tremare la terra.
Quel minuto ha devastato interi paesi, diversi abitanti sono rimasti intrappolati tra le pietre che fino a quel momento erano degli abbracci confortevoli. A vedere coi propri occhi, a essere testimoni della distruzione e dei primi soccorsi, i radioamatori locali, colpiti anche loro dal sisma ma che subito si attivano per avvisare della gravità del momento. Le loro frequenze vengono sfruttate anche dai carabinieri con cui rimangono in stretto contatto (fisico) nei diversi comuni.
Non esisteva il Servizio Civile, un corpo cioè deputato a intervenire nelle situazioni di emergenza. Esisteva però il CER (Corpo Emergenza Radioamatori) che in collegamento con la Prefettura di Udine, divenuta centro operativo, riuscì a gestire e coordinare i soccorsi, formando una rete e sfruttando i vari ponti-radio friulani. A capo del CER in Friuli, Antonio Boemo che ricorda: «In quelle ore concitate, capitò di tutto un radioamatore triestino, purtroppo scomparso prematuramente, Umberto Biasutti, si dimenticò ad esempio a casa la batteria di riserva; dovette smontare quella della macchina e portarsela a piedi per raggiungere Montenars» Alle undici di notte arriva il Corpo d’Armata da Udine e illuminando le strade coi canfin (le lampade a petrolio), si aggirano per prestare i soccorsi.
Acqua e coperte sono le prime richieste degli assistiti. Le tubature distrutte non erogano più acqua. E il freddo. Nonostante anche l’asfalto si sia quasi sciolto dal caldo, le persone colpite da quell’evento angoscioso, sentono freddo. Ci si organizza per trasportare in ospedale i più gravi tra loro, Piero Fantoni (IV3AOS) radioamatore e imprenditore mette a disposizione lo spiazzo davanti casa sua a Gemona per far atterrare l’elicottero, buttando giù un albero che poteva intralciare il movimento delle pale e costituire un pericolo.
Passano le ore. Le grida dei superstiti, provenienti dagli ammassi di macerie, incoraggiano i soccorritori a scavare per mettere in salvo quante più persone. Una straziante testimonianza di una mamma, racconta di come lei e i suoi due bambini siano stati sorpresi dalla scossa mentre stavano in cucina. Li abbraccia mentre tutto gli frana addosso. Il più piccolo di dieci anni, rimane incastrato sotto una trave in cemento e ha una voce sempre più flebile. Quando arrivano i soccorsi lei e il figlio più grande iniziano a urlare «Grida anche tu Federico» incita il maggiore al suo fratellino. «Lascialo dormire – risponde la mamma – vedi che sta dormendo, a lui piace tanto dormire» Non ce la farà «Ora sono rimasta senza il mio picinin»
Andrea, mio padre, è originario di Treppo Carnico. Nel ’76 già viveva in Sardegna. Sono in tanti i friulani emigrati e per loro la priorità in quel momento, è quella di assicurarsi che i parenti rimasti in Friuli, stiano bene: «Venni a conoscenza del terremoto da un’Edizione Straordinaria del TG e tentai subito di mettermi in contatto telefonico dalle 23.30 circa e fino all’una di notte per avere notizie un po’ più precise, soprattutto mi interessava la situazione della mê Mà. Niente da fare. Friuli e Veneto risultavano praticamente irraggiungibili. All’una circa riuscii a contattare il cugino Walter a Milano. Mi tranquillizzò su Treppo. Mio cugino disse che verso quell’ora anche da casa sua a Milano ha avvertito la scossa. Si tenga presente che Milano dista da Gemona circa 400 km» «Da quello che mi raccontavano fin da quando ero bambino – prosegue Andrea – non passava inverno senza che il terremoto si facesse sentire una o due volte»
Ma le scosse del 1976 hanno messo in ginocchio una quarantina di comuni nelle province di Udine e Pordenone.
Al momento di fare la somma, l’Orcolat ha spezzato 989 vite, ha lasciato orfani, ha tolto case e lavoro a migliaia di persone. Dopo la dolorosa conta, è il momento di rimboccarsi le maniche. «Prima le fabbriche, poi le case e poi le chiese» suggerisce Monsignor Battisti e questo è diventato il motto del “Modello Friuli”. L’unica realtà in Italia che ha potuto scrivere la parola “fine” al progetto di ricostruzione dopo il sisma. Si va avanti anche dopo le altre scosse di settembre che in un primo momento rimettono a dura prova gli abitanti delle zone colpite ma è decisiva per convincerli a spostarsi nelle località più vicine al mare dove vivranno fino alla primavera. Quando cioè saranno pronte le casette in legno. Dopo dieci anni, tutti i comuni sono ricostruiti, gli sfollati si sono riappropriati delle abitazioni. Zamberletti, nominato Commissario Straordinario, ebbe la delega e pieni poteri per riorganizzare in maniera “decentrata” dallo Stato. Coordinava anche i sindaci che a loro volta possedevano la delega per agire sui territori amministrati. Certo non senza polemiche. A Gemona, il sindaco, per poter procedere al rifacimento, usò il “pugno di ferro” espropriando le abitazioni alle famiglie.
Ogni pietra però alla fine è rimessa al suo posto. Con la tecnica definita anastilosi, si restituiscono interi comuni come si presentavano prima del 6 maggio.
A Venzone, borgo medievale e monumento nazionale dal 1965, anch’esso raso al suolo come Gemona, non solo si ricostruisce fedelmente ma nel 2016 verrà inaugurata la Serm Academy (Sismic emergency response management) per insegnare le tecniche dalla prima emergenza alla messa in sicurezza. La scuola non è solo teorica ma insegna anche “la pratica” sfruttando quegli edifici che non si sono potuti ricostruire della frazione di Portis Vecchio (ricostruito a 2 km più a nord).
Il Friuli è andato avanti «fasìn di bessôi» era l’altro motto che ha caratterizzato la forza di volontà di ricostruire. Sandro Pertini nel 1985 conferma «Sì il Friuli ha avuto gli aiuti dello Stato, non v’è dubbio ma i furlan si sono rimboccati le maniche. Io sono stato lì in quelle zone e loro hanno fatto in gran parte da soli. I furlan. Grande volontà»
Fasìn di bessôi “facciamo da soli” non aveva un significato sprezzante o irriconoscente verso gli aiuti dello Stato e di tutti i volontari accorsi, era un incitamento per spronare tutti i friulani ad attivarsi a non lasciarsi abbattere, mettere tutta la caparbietà delle loro “teste dure” per riappropriarsi, al più presto, della loro vita, di quella serenità davanti al fogolar.
Che non ci sia stata ingratitudine, lo dimostra una terza e importante frase che ha scandito quei momenti e gli anni a seguire:
“Il Friûl al ringrazie e nol dismentee”
Sparo pixel alla rinfusa, del resto sono nata sotto un palindromo (17-1-71), non potevo che essere tutto e il contrario di tutto. Su una cosa però non mi contraddico «Quando mangio, bevo acqua. Quando bevo, bevo vino» (cit. un alpino)
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