Quando Robert Francis Kennedy intraprese, 5 anni dopo l’assassinio del fratello, la rincorsa per le elezioni presidenziali, immagino che un po’ di paura dovette avercela. “Bob” Kennedy stava improntando la sua campagna elettorale in difesa dei diritti civili, tra cui quelli dei neri che all’epoca erano nel pieno delle loro battaglie. La morte di Martin Luther King, assassinato pochi mesi prima, aveva colpito profondamente Bob che, tra le altre cose, era fermamente contrario alla guerra in Vietnam. Inoltre, dichiarò che l’unico che avrebbe potuto fare chiarezza sull’omicidio del fratello, poteva essere un altro Presidente. Forse un po’ troppo, per una certa America conservatrice e reazionaria di allora. “Ogni volta che la vita di un americano viene spezzata da un altro americano, ogni volta che viene lacerato quel tessuto vitale che un altro uomo ha così pazientemente e dolorosamente intrecciato, per se stesso e per i suoi figli, l’intera nazione ne viene umiliata. Eppure noi tolleriamo un livello sempre crescente di violenza, che ignora sia la nostra comune umanità che le nostre pretese di civiltà. Glorifichiamo l’assassinio sugli schermi del cinema e della TV, e lo chiamiamo “intrattenimento”. Bob aveva appena finito il suo comizio in un clima festoso, in un hotel a Los Angeles, e si stava dirigendo verso l’uscita di servizio, scortato dal suo staff, quando si udirono numerosi colpi di pistola esplodere. Bob fu colpito insieme ad altre persone dello staff. Prima di perdere conoscenza, Bob si sincerò delle condizioni degli altri feriti. Non si svegliò mai più. Fu accusato dell’omicidio un ragazzo giordano, Shiran Shiran, preso con la pistola in pugno a pochi metri dalla vittima, mentre urlava come un ossesso “Kennedy must die”. Ma ancora più che nel caso dell’omicidio del fratello, i lati oscuri nella dinamica e nel movente dell’omicidio si evidenziarono da subito. La perizia necroscopica, infatti, evidenziò che i colpi che ferirono la vittima risultarono esplosi da un altra posizione, e le registrazioni evidenziarono un numero di colpi superiore a quello consentito dalla pistola del ragazzo arrestato. Durante il processo, inoltre, sparirono praticamente tutte le prove: proiettili, fotografie, gli elementi della scena del delitto, la pistola dell’arrestato. Alcune testimonianze, inoltre, furono fortemente manipolate, come quella di Sandra Seasan, collaboratrice della vittima. Vent’anni dopo, il fotografo ufficiale dell’evento, Scott Enyont, si recò finalmente a reclamare le foto che gli erano state sequestrate e tenute segrete per quel periodo, scoprendo che erano state distrutte immediatamente. Ma le incongruenze della storia sono talmente tante, e ormai note, che invito, chi vorrà, a farsi una idea per proprio conto. E Shiran? Che fine ha fatto? E’ ancora vivo, condannato all’ergastolo, pena così commutata perché, per sua fortuna, prima che venisse resa esecutiva la pena di morte, lo stato della California l’aveva abolita. Interrogato e intervistato più volte su quegli eventi, Shiran sostiene di non ricordare nulla, e di essere in carcere per un delitto di cui non sa nulla. In casa sua fu ritrovato un diario dove annotava frasi ripetitive in odio ai Kennedy, più o meno sconnesse, al quale incolpava ammiccamenti nei confronti dei sionisti. E’ stato ipotizzato che Shiran potesse aver agito sotto gli effetti di sostanze psicotrope o sotto ipnosi. Recentemente è stato sottoposto ad ipnosi regressiva, ma neppure l’inconscio di Shiran ricorda nulla. Solo a nominare Kennedy, a distanza di mezzo secolo, l’inconscio di Shiran è restato sequestrato dalla solita cantilena. Kennedy must die Kennedy must die Kennedy must die. Chissà se si riuscirà a far luce su questo mistero. Resta il fatto che la visione progressista, liberale e aperta dei Kennedy, quella di un sogno americano che si conciliasse con un più grande sogno dell’umanità intera, morì forse quella notte.
Fiorenzo Caterini, cagliaritano classe '65. Scrittore, antropologo e ambientalista, è studioso di storia, natura e cultura della Sardegna. Ispettore del Corpo Forestale, escursionista e amante degli sport all'aria aperta (è stato più volte campione sardo di triathlon), è contro ogni forma di etnocentrismo e barriera culturale. Ha scritto "Colpi di Scure e Sensi di Colpa", sulla storia del disboscamento della Sardegna, e "La Mano Destra della Storia", sul problema storiografico sardo.
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