Katyn è una fitta foresta della Bielorussia. Una volta, quando ancora la storia non aveva disegnato i confini attuali, la frontiera polacca non era lontana. Katyn è il posto che dimostra come non ci fosse grande differenza, sul piano della violenza sanguinaria, tra la follia nazista del Fuhrer e il regime comunista di Stalin. In una fossa comune della grandezza di un cratere, a Katyn, nel 1943, furono trovati 22 mila cadaveri, ammucchiati l’uno sull’altro. Erano ufficiali e gente comune deportata dalla Polonia, dopo l’invasione tedesca del settembre 1939. Lo sterminio avvenne nel 1940, ma non furono i nazisti a compierlo. La verità si seppe sono cinquant’anni dopo, quando dagli archivi dell’ormai sgretolato impero sovietico emersero le carte del massacro: vennero consegnate a Mikhail Gorbachov che, a sua volta, le passò a Boris Eltsin. E la Russia confessò la sua colpa, cinque decenni dopo.
Prima dell’attacco all’Urss del 1941, Hitler e Stalin erano legati dal patto di non aggressione Molotov-Von Ribbentrop. Il patto prevedeva anche la spartizione della Polonia tra Germania e Unione sovietica, cosicché all’invasione polacca da ovest dei tedeschi corrispose quella dal lato opposto da parte dei sovietici, motivata dalla pretestuosa necessità di mettere in salvo i cittadini russi residenti.
Soldati e esponenti della resistenza polacca vennero fatti prigionieri e destinati a campi di prigionia in Ucraina e Bielorussia. Sulla loro sorte, nelle prime settimane del 1940, si allungò l’ombra sinistra di Berija, il ministro degli Interni russo, nonché capo della polizia politica comunista. Fu lui a suggerire a Stalin la deportazione e lo sterminio di quei 22 mila reclusi, considerati pericolosi sovversivi in vista della spartizione della Polonia. Erano non solo soldati, ma anche intellettuali, scrittori, docenti: la coscienza critica di un Paese, una coscienza che difficilmente si sarebbe arresa all’invasione e che quell’invasore voleva mettere a tacere a tutti i costi. Stalin firmò l’ordine di uccidere questa gente esattamente 77 anni fa, il 5 marzo del 1940. I prigionieri vennero portati a Katyn, uccisi e sepolti nella fossa comune. Quando il ministro della propaganda tedesca Goebbels seppe dell’eccidio, era il 1943 e Urss e Germania erano nemici da ormai due anni. Goebbels vide in quella strage un’occasione per gettare discredito su Stalin, ma la scoperta di proiettili tedeschi nei cadaveri dei prigionieri polacchi lo trattenne dal diffondere la notizia, che comunque divenne di dominio pubblico. Russi e tedeschi si palleggiarono la responsabilità di quell’orribile crimine per mesi, fin quando, in quello stesso 1943, non venne costituita una commissione scientifica per fare chiarezza sui fatti di Katyn. Di quella commissione faceva parte anche un italiano, il professor Vincenzo Palmieri: era direttore dell’Istituto di medicina legale di Napoli e della città partenopea fu anche sindaco, per un breve periodo, negli anni sessanta. Palmieri giunse ad una conclusione condivisa da tutti i membri della commissione: l’eccidio risaliva ad almeno tre anni prima, quando quelle terre erano ancora occupate dai sovietici, prima dell’attacco tedesco all’Urss. Il che sembrava scagionare i nazisti dalle responsabilità sul massacro per farle ricadere su Stalin. L’estrazione di proiettili tedeschi dai cadaveri venne spiegata dall’uso, da parte degli ufficiali russi, di pistole fabbricate in Germania, più leggere e con minore rinculo. Tra questi ufficiali, nelle vesti di boia si distinse un certo Vasily Blokhin, che uccise con un colpo alla nuca centinaia di quei polacchi, sacrificati al nuovo ordine immaginato da Stalin. Il professor Palmieri, in Italia, fu vittima di una campagna di denigrazione feroce da parte dei comunisti nostrani, da cui venne accusato di aver preso le parti del mostro tedesco per delegittimare la rivoluzione comunista. Il tempo, con lui, fu galantuomo molti anni dopo, quando dagli archivi russi vennero riesumate le carte che dimostravano quanto fossero bagnate di sangue le mani dello Stato maggiore sovietico. Palmieri fece in tempo a veder riconosciuta la sua correttezza: morì nel 1994, quando ormai mandanti ed esecutori della strage avevano nomi e cognomi.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
Renatino e i misteri di Roma (di Giampaolo Cassitta)
Elio e le storie disattese (di Francesco Giorgioni)
Un rider non si guarda in faccia (di Cosimo Filigheddu)
Ciao a Franco dei “ricchi e poveri”. (di Giampaolo Cassitta)
La musica che gira intorno all’Ucraina. (di Giampaolo Cassitta)
22 aprile 1945: nasce Demetrio Stratos: la voce dell’anima. (di Giampaolo Cassitta)
Ha vinto la musica (di Giampaolo Cassitta)
Sanremo non esiste (di Francesco Giorgioni)
Pacifisti e pacifinti (di Simone Floris)
Lo specchietto (di Salvatore Basile)
Da San Gavino a San Cristoforo, quando colonizzammo il Villaggio Verde. Ovvero il trasloco (di Sergio Carta)
Se riesco a buscare 5000 Lire ci vediamo allo Zoom, ovvero le pomeridiane in discoteca degli anni’80. (di Sergio Carta)
Papa Fazio (di Cosimo Filigheddu)
Inserisci il tuo indirizzo e-mail per iscriverti a questo blog, e ricevere via e-mail le notifiche di nuovi post.
Unisciti a 18.021 altri iscritti
Indirizzo e-mail
Iscriviti
sardegnablogger ©2014 created by XabyArt - graphic & web design