“Io non ho paura per me, ma per mia moglie e il mio bambino, che non ha mai realmente conosciuto suo padre. Il mio cuore mi dice che questa potrebbe essere l’ultima lettera che ti scrivo. Se così dovesse essere ti chiedo questo: quando la guerra sarà finita vai in Germania a trovare mio figlio e raccontagli anche che neppure la guerra è riuscita a rompere la nostra amicizia. Tuo fratello Luz”. Sono passati 80 anni dal giorno in cui Jesse Owens compì l’ennesima impresa in quelle storiche olimpiadi di Berlino, vincendo la sua terza medaglia d’oro individuale, quella dei 200 metri. Pochi giorni ancora e l’atleta statunitense raggiungerà il record di 4 medaglie d’oro in una sola olimpiade, con la 4 x 100 della squadra statunitense. Impresa che consegnò Owens alla storia, forse, come il più grande atleta di tutti i tempi. Si disse che Hitler, inviperito per la sconfitta del beniamino di casa Luz Long, rifiutò di stringere la mano a Owens. Un aneddoto in realtà un po’ amplificato, e che non tenne mai conto del fatto che, in verità, la situazione dei neri americani, fino a quel momento, non era migliore di quella degli ebrei tedeschi. E non tenne conto del fatto che neppure il Presidente degli Stati Uniti Roosevelt ebbe a stringere mai la mano a Owens. Tuttavia, quelli furono giochi condizionati dalla politica e dall’ossessione della razza ariana, ed effettivamente le clamorose imprese di Owens un certo fastidio, al di là di aneddoti esagerati, le diedero. La retorica del dopoguerra dipinse lo scontro tra Owens e l’elegante Luz Long come una lotta tra il bene e il male, con la soddisfazione di vedere il potente e malvagio Hitler perdente ed indispettito. Ma le cose andarono diversamente. Durante i salti di qualificazione Owens, impegnato su più fronti, confuso e stanco dalle batterie dei 200 metri, si trovò ad un passo dall’eliminazione. Long era nettamente in testa alla gara, ampiamente qualificato per i salti di finale, quando si accorse dell’errore di rincorsa commesso da Owens. Andò da lui e gli corresse la rincorsa, ponendo un fazzoletto sul punto di avvio. Owens si fidò del rivale, e fece esattamente come gli suggerì. Il salto fu stratosferico, 8.06, qualificato con la migliore misura. Che poi gli diede la vittoria. Luz fu il primo a complimentarsi con l’americano, come mostrano i filmati d’epoca. Un comportamento assolutamente censurato: non ci si congratulava con un negro, nella Germania nazista. Fu quello di Luz un gesto di una bellezza sentimentale tale da rappresentare l’essenza stessa della sportività. I due strinsero, in quelle poche ore, una amicizia immortale. Erano uniti oltre che dal talento, anche da un animo che andava ben oltre le barriere e i confini che gli uomini di quei disgraziati tempi stavano costruendo. Chissà. Chissà, se Luz non avesse fatto quel gesto, e avesse vinto la gara, forse non sarebbe finito nel dimenticatoio, ma ricordato come uno dei più grandi lunghisti di tutti i tempi. Invece fece quel gesto altruistico, e finì inghiottito dalla retorica del dopoguerra e dall’onore delle armi, riservata solo ai perdenti. Chissà. Chissà, se Luz avesse vinto quelle olimpiadi, forse non sarebbe stato richiamato alle armi, nel 1943, in Sicilia, a combattere proprio contro gli americani. Tutto il peso della divisa e delle armi, del sudore e della polvere, nell’afosa estate siciliana, a Santo Pietro, un piccolo aeroporto militare nei pressi di Ragusa. Il trentenne sergente maggiore Long è lì, mentre infuriano i combattimenti contro gli alleati. I compagni tedeschi che cadono ad uno ad uno. Un raffica di mitra, un’altra ancora. La bandiera americana che sale in alto, la folla che applaude, la sabbia in bocca e nei capelli. Le urla dei commilitoni, il sangue, il sole che si spegne. Una fossa improvvisata, una delle tante in quella gigantesca e immonda carneficina. Dentro, migliaia di cadaveri, di poveri soldati, giovani sacrificati sull’altare della follia. Una piastrina di riconoscimento. Luz Long. Al margine della strada che porta al paese di Motta Sant’Anastasia, alle falde dell’Etna, si trova il cimitero di guerra tedesco. Nella grande lapide, tra le migliaia di caduti, si può leggere il nome di Luz Long. Luz Long, grande, grandissimo saltatore in lungo, dalla cadenza perfetta e dal volo elegante e fermo, ricordato, oggi, per la più bella ed incredibile storia di amicizia e di sport che si ricordi. Perché anni dopo, alla fine della guerra, Jesse Owens, rivalutato dopo essere stato anche lui trascurato e dimenticato in patria, davvero è andato a trovare il figlio di Luz. E nel 2009, in occasione dei campionati mondiali di atletica a Berlino, grande commozione ha destato l’incontro tra i nipoti di Long e di Owens. L’amicizia, talvolta, è immortale. Solo i governi dimenticano. E quanto sarebbe bello che in quel cimitero, o a Santo Pietro, con una cerimonia insieme ai discendenti di Luz e di Owens, si potesse erigere un emblema, un ricordo ad imperitura memoria, un monumento all’amicizia immortale, alla fratellanza tra i popoli, alla stupidità della guerra, proprio lì, di fronte al tragico Mar Mediterraneo di oggi.
“Dopo la guerra, va’ in Germania, ritrova mio figlio e parlagli di suo padre. Parlagli dell’epoca in cui la guerra non ci separava e digli che le cose possono essere diverse fra gli uomini su questa terra. Tuo fratello, Luz.”
“Si potrebbero fondere tutte le medaglie che ho vinto, ma non si potrebbe mai riprodurre l’ amicizia a 24 carati che nacque sulla pedana di Berlino. Jesse Owens.”
Fiorenzo Caterini, cagliaritano classe '65. Scrittore, antropologo e ambientalista, è studioso di storia, natura e cultura della Sardegna. Ispettore del Corpo Forestale, escursionista e amante degli sport all'aria aperta (è stato più volte campione sardo di triathlon), è contro ogni forma di etnocentrismo e barriera culturale. Ha scritto "Colpi di Scure e Sensi di Colpa", sulla storia del disboscamento della Sardegna, e "La Mano Destra della Storia", sul problema storiografico sardo. Il suo ultimo libro è invece un romanzo a sfondo neuroscientifico, "La notte in fondo al mare".
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