Il mio primo viaggio fu di martedì, di un febbraio freddo e ventoso. Ricordo quell’odore di nave, di grasso e di salsedine, simile a quello della Tirrenia. Odore da emigrante. La Cantiello era molto piccola e per visitarla bastavano pochi minuti. Una poppa dove era possibile farci stare un’auto, massimo due, una stiva dove finivano i viveri per l’Asinara e una prua appuntita, ben disegnata. L’unico luogo per i passeggeri era una saletta con le sedie in plastica e nient’altro. Mi ricordo i volti di chi quella nave la prendeva per lavoro, di chi, invece, la utilizzava per andare a visitare i propri cari e di chi, senza essere visto da nessuno, ci saliva come detenuto, nelle cellette sotto coperta, ovviamente non visitabili da nessuno. La Cantiello era una corriera di anime inquiete, un’opportunità per raggiungere e abbandonare l’isola, era il punto di incontro di molte storie. Ho parlato, negli anni, con moltissimi familiari che mi chiedevano una risposta sullo stato giuridico dei loro cari, sulla possibilità che potessero rientrare a casa in permesso premio. Ho visto detenuti felici quando quel viaggio rappresentava il raggiungimento della libertà. Ho visto ragazzi attanagliarsi e contorcersi dentro le proprie vite; detenuti tristi che rientravano dal permesso premio e osservavano con il magone il molo di Porto Torres che lentamente si allontanava. La Cantiello (o il Cantiello, secondo un’altra scuola di pensiero) raccoglieva le storie di tutti e le miscelava con il rumore dei motori e del mare. Ha concluso la sua vita quando ha chiuso il carcere. In quell’ultimo viaggio, nel febbraio del 1998, io c’ero. Il comandante suonò ripetutamente la sirena nella rada di Cala d’Oliva, prima di mettere la prua verso Porto Torres. Il mare era fermo, non raccontava rumori particolari. La scia raccoglieva malinconia, solitudine, si miscelava ai ricordi. Non sarei più salito su quella nave come passeggero, non mi avrebbe più accompagnato in quell’isola dove avevo lavorato per tredici anni. Poi il declino, come per gli eroi dimenticati e tristi che rappresentavano con la loro storia quasi un fastidio. La vidi a Cagliari, ancorata in un bruttissimo molo, in disparte. Quasi una vergogna. Fu una fitta al cuore. Ne fecero un ristorante e ci andai a mangiare due volte. Non aveva più quell’odore di grasso e di mare, non aveva più quel sapore di vite da raccontare. La lunga agonia sembra dover finire. La smantelleranno. Forse è giusto così, forse è sbagliato. Chissà. Sarebbe stato bello ritornasse per l’ultima volta all’Asinara, ad assaggiare quelle onde, a ripercorrere quelle miglia, a suonare quella sirena che annunciava l’arrivo o la partenza e, a seconda dei momenti noi, sull’isola, ci sentivamo più soli. Sarebbe bello si fermasse per sempre nel molo di Cala d’Oliva e potesse essere visitata da tutti, testimonianza di racconti indelebili, carcere e vita, carcere e morte, carcere e storia. Sarebbe bello che il bellissimo parco nazionale adottasse la Cantiello: sarebbe come adottare le storie intrecciate di migliaia di persone che da quella nave sono partiti, arrivati, ripartiti con lo sguardo di chi aveva in tasca un pezzo di Asinara.
Nato a Oristano. padre gallurese, madre loguderse, ha vissuto ad Alghero, sposato a Castelsardo e vive a Cagliari. Praticamente un sardo DOC. Scrive romanzi, canta, legge, pittura, pasticcia e ascolta. Per colpa del suo mestiere scommette sugli ultimi (detenuti, soprattutto) e qualche volta ci azzecca. Continua a costruire grandi progetti che non si concretizzano perché quando arriva davanti al mare si ferma. Per osservarlo ed amarlo.
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