Di Maria Dore
Moderno, geniale, internazionale.
Pretenzioso, noioso, deprimente.
Non era facile, negli anni ‘50, archiviare la fase neorealista che aveva rappresentato le miserie collettive del dopoguerra per indagare, con la sua minuziosa precisione formale, borghesi dissidi interiori. Così iniziò Antonioni nel 1950 in Cronaca di un amore. Il cinema raggiunse così il suo senso più puro, con l’immagine sovrastante parole e personaggi, portando il silenzio a dominare. L’apice di questo percorso è la la trilogia de L’avventura, La notte e L’eclisse. “Si è detto a volte che Antonioni è di ghiaccio: trovo che non sia affatto freddo, al contrario quel ghiaccio brucia”, disse di lui Alain Resnais. E bruciava, in quella trilogia, la sua diva, che fu anche la sua donna, Monica Vitti. Donne protagoniste anche nel 1955 in Le amiche, traduzione cinematografica del bellissimo Tra donne sole di Cesare Pavese. Non tutti lo amano. Il regista inglese Mike Leigh, pur grande estimatore del cinema nostrano, definisce Blow up “un ammasso di pretenziosa merda”. Eppure, quel finale con la partita di tennis senza pallina… E quello de l’Eclissi, l’appuntamento mancato tra Piero e Vittoria. E quello de La Notte, in cui Mastroianni non riconosce la lettera scritta tempo prima alla moglie Jeanne Moreau, e l’infinito piano sequenza di Professione: reporter. Nello stesso giorno della morte di Antonioni, si spegneva anche il maestro svedese Ingmar Bergman, autore dal tratto non troppo distante dal registra di Ferrara. Solo una coincidenza? Forse sì, naturalmente. Ma se uno dei poteri del grande cinema è quello di immaginare l’improbabile, ci piace poter pensare che questa circostanza, casuale non lo sia del tutto.
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