Buenos Aires, minuto 67 della partita, in Italia più o meno le tre di notte del 10 giugno 1978. Bettega punta l’area, inseguito dalle maglie biancocelesti, ma a un passo dal limite dei sedici metri appoggia su Rossi. Al centravanti del Lanerossi Vicenza basta un tocco di prima per rendere la palla al compagno in corsa e spalancargli davanti la porta di Fillol, il portiere che indossa la maglia nera col numero 7. Rasoterra secco, in diagonale, gol, esultanza dell’attaccante della Juve che salta a braccia levate verso la bandierina del calcio d’angolo. Allora i calciatori festeggiavano una rete staccandosi dal prato con uno o più balzi in verticale e i pugni chiusi al cielo: non esistevano i balletti, i tuffi, le capriole e le sceneggiate odierne.
Ricordo che babbo mi proibì di fare un fiato. Vedevamo la partita a casa dei nonni, in campagna, da un Nordmende bianco appoggiato sulla credenza. Avevo sette anni e mi feci promettere, la sera prima, di essere svegliato nel cuore della notte per assistere all’incontro: babbo, orgoglioso di quel figlio che s’interessava di calcio, felicemente mi strappò al letto, ma mi ordinò silenzio perché in casa tutti dormivano. E poi nonno Antuniccu era morto da meno di un mese, non c’era nulla da festeggiare. Alla consegna di babbo si attenne anche Nando Martellini, che segnalò la marcatura alzando appena appena il tono della voce.
Quella gioia strozzata in gola me la ricordo ancora. L’Argentina poi vinse i mondiali, trascinata dai gol di Mario Alberto Kempes, ma gli azzurri di Bearzot furono gli unici a metterla in ginocchio, nel girone eliminatorio. Tanti anni e qualche libro di storia dopo, sono arrivato alla conclusione che non c’era davvero nulla da festeggiare, anche se noi non potevamo saperlo.
L’Argentina, in quel 1978, viveva il secondo anno della dittatura dei generali, capeggiati da Jeorge Videla. Lo chiamavano Piano di riorganizzazione nazionale, nei fatti fu una feroce forma di totalitarismo sanguinario, accettato senza troppe storie e persino sostenuto da Stati Uniti e dall’intero Occidente. Mentre il mondo si interessava all’Argentina per i calci assestati al pallone dagli atleti delle rappresentative nazionali in lizza, migliaia di sindacalisti, attivisti politici di sinistra, studenti, uomini e donne della Chiesa, giornalisti e dissidenti venivano fatti sparire per impedire che la contestazione al regime divampasse. Mentre io e milioni di altri italiani trepidavamo per la contesa sportiva, anche quello stesso 10 giugno 1978, tanti giovani argentini tentavano di sfuggire ai tentacoli dell’Esma, la Scuola superiore di meccanica dell’esercito, in cui venivano formati i giovani ufficiali.
Fu l’Esma ha organizzare la repressione, ricorrendo ad abominevoli forme di annientamento umano, il più atroce dei quali erano i “Voli della morte”. Si sequestrava il dissidente e, quando non bastava la detenzione in carcere per blandirlo, veniva narcotizzato, caricato su un aereo e buttato di sotto da migliaia di metri di quota. L’Argentina, si sa, fu meta di massiccia emigrazione italiana, a partire dall’800. E nella lista dei Desaparecidos figurano almeno trecento italiani, brutalmente eliminati con questi metodi spicci. Tra loro, anche due sardi: Mario Bonarino Marras e il cognato Martino Mastinu, di Tresnuraghes, quest’ultimo sindacalista ai cantieri navali di Buenos Aires, spariti nel 1976, subito dopo l’assalto alla Casa Rosada del 24 marzo. Anche loro vennero spinti giù da un aereo, come ha stabilito il processo contro i generali celebrato pochi anni fa.
Ora chiudo il giro e vi spiego cosa c’entra il 30 aprile con questa storia di follia collettiva. Il 30 aprile del 1977, quarant’anni tondi tondi ad oggi, marciarono per la prima volta in Plaza de Mayo, davanti alla presidenziale Casa Rosada, le madri degli scomparsi nel nulla. Marciarono, perché la legge marziale proibiva assembramenti e raduni stanziali: non si poteva star fermi, bisognava circolare. In testa alla sfilata c’era Azucena Villaflor, che non aveva notizie del figlio e della di lui fidanzata. Venne fatta sparire a sua volta, nel dicembre di quello stesso anno. Il suo cadavere fu restituito dall’Oceano e solo due decenni dopo i medici legali stabilirono che apparteneva alla fondatrice delle Madri di Plaza de Mayo, il cui sforzo per ristabilire la verità continua ancora oggi. Furono decine i cadaveri ritrovati sulle spiagge argentine, ma a molti di quei corpi non fu possibile assegnare un’identità. E incerto rimane anche il numero degli oppositori uccisi, stimati in circa trentamila. Un’ultima domanda: sono pentiti, oggi, gli ufficiali che permisero il colpo di Stato di Videla e furono complici di quel massacro? Io dico di no. Anni fa ne conobbi uno, del tutto casualmente. Sul tavolo del ristorante di Madrid nel quale mi trovavo con alcuni amici, arrivò una bottiglia di Trapiche. L’aveva offerta un signore baffuto, ormai alle soglie della vecchiaia, che consumava da solo, al centro della sala: il personale si rivolgeva a lui chiamandolo “il colonnello”. Ci aveva sentiti parlare in italiano, spiegò, e lui conosceva bene l’Italia. Conosceva addirittura la Sardegna, aggiunse, perché aveva partecipato ad un addestramento alla Brigata Sassari, molti anni prima. Capii e il discorso scivolò prima sulle Falkland – “Malvinas”, mi corresse subito, con espressione severa – poi su Videla e sulla Madri di Plaza de Mayo. Asserì di aver conosciuto Licio Gelli. Fu sprezzante nell’indicare quel dissenso come la causa di un disordine al quale il regime aveva legittimamente reagito per “la salvezza nazionale”. Non c’era ombra di vergogna, in lui, men che meno il dubbio dell’errore. La repressione violenta era a due passi da me, mi aveva offerto da bere e menava vanto di quel tempo insanguinato di cui era stato parte. Mi sorrideva e si godeva la libertà, con un sigaro spento tra le dita.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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