E con lui la sua giovane moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente di scorta Domenico Russo. Con Emanuela si era sposato due mesi prima. Un paio di raffiche di kalashnikov e addio al grande italiano che lo Stato aveva mandato in Sicilia per sgominare la mafia e del quale grandi sue parti avevano una fifa matta: parti di Stato voglio dire, perché la mafia, che dire, con quel massacro sfacciato, mi diede l’impressione di sentirsi le spalle coperte. Quando le agenzie lanciarono la notizia, io avevo 30 anni e facevo il giornalista da oltre sette. Questo per dire che ero uno già abbastanza scafato. Eppure fu la prima volta che avvertii fortissima, concreta, forse addirittura disperata, una sensazione di sfiducia nei confronti dello Stato. Non della mia gente, della mia terra, del nostro passato, delle nostre speranze, ma proprio del mio Stato, quel potere sovrano che ci siamo dati per sfuggire alla barbarie. Io sarò anche un po’ coglione, però ho sempre avuto bisogno di emozioni per formarmi opinioni importanti che uno invece dovrebbe raggiungere soltanto con ragionamenti spassionati. Il fatto è che Dalla Chiesa mi piaceva. Quel suo passato eroico – lo confesso anche a me stesso ora che sono vecchio – mi affascinava. Il carabiniere partigiano. Dopo l’8 settembre era stato uno degli italiani che aveva salvato la dignità di una nazione calpestata da Mussolini, dal Savoia e dai nazisti: si era rifiutato di obbedire agli invasori tedeschi e ai loro servi fascisti, e si era unito ai partigiani. Finita la guerra si era messo a servire lo Stato con puntiglio, intelligenza, coraggio e soprattutto lealtà. Gli avevano chiesto di fare fronte al fenomeno del terrorismo e aveva messo all’angolo le Brigate Rosse. In una sua precedente esperienza in territorio siciliano, aveva studiato alla perfezione il brodo di coltura della mafia, a esempio quando da capitano dei carabinieri aveva inchiodato Luciano Liggio per l’omicidio del sindacalista Placido Rizzotto. Insomma, in quegli inizi di anni Ottanta, quando lo mandarono a Palermo, cominciai a leggere prima un po’ stupito e poi allarmato le dichiarazioni che quel militare, solitamente così distante da ogni ostentazione mediatica, cominciò all’improvviso a rilasciare. Nel luglio di quell’82, nei giorni del matrimonio con Emanuela (la sua seconda moglie, era vedovo), commentò: “Mi mandano a Palermo con gli stessi poteri del prefetto di Forlì”. In un’intervista a Giorgio Bocca disse con maggiore chiarezza che lo Stato non gli dava sostegno. Insomma, l’impressione era quella di un dignitoso condannato a morte che sa che cosa l’aspetta ma che non vuole scappare. Dopo il massacro, la gente evidentemente sapeva. Ai funerali fecero scappare a calci in culo tutti i politici che si erano azzardati a tentare la passerella in chiesa. A uno soltanto i siciliani onesti e disperati per questa speranza annegata nel sangue, permisero di avvicinarsi. L’altro grande e disperato italiano Sandro Pertini, che quel giorno pianse come soltanto i coraggiosi sanno piangere. Per quell’omicidio furono condannati come mandanti personaggi quali Riina, Provenzano, Greco e compagnia bella. E vi sembra gente dalla statura del “mandante” di un simile delitto? Se vi leggete a esempio i testi delle intercettazioni di Riina in carcere mentre parla dell’uccisione di Dalla Chiesa, vi fate l’idea di una bestia selvaggia e vanagloriosa che si lecca le labbra dal sangue, non di un raffinato criminale capace di gestire un potere complesso. Mandanti? Forse più mandati, direi. Nella galassia del dopo ci sono entrati tutti e tutto: da Andreotti e i suoi democristiani siciliani con la cagarella per l’arrivo del super prefetto, a Pecorelli e ai memoriali segreti di Moro trafugati dalla cassaforte di Dalla Chiesa dopo la sua morte. Cosa volete che vi dica? Di dietrologia non è che me ne intenda tanto. Per me Dalla Chiesa era soprattutto una minaccia permanente per un’Italia che tirava a campare tra accordi indecenti, ricatti e minacce. Saranno soltanto “pezzi di Stato”, come dicono quelli che sanno le cose, ma quello Stato da allora mi fa paura.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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