Stravolto da lunghi ed estenuanti mesi di navigazione, quella notte, gli apparve una immagine incomprensibile. Un vecchio dalla pelle scura, debole e sofferente, come se avesse trascorso una vita passata tra gli stenti, che sorrideva e stringeva la mano ad un aitante giovane dalla pelle bianca e dai capelli biondi. Gli parve, la cosa, di buon auspicio. La mattina successiva, il 3 febbraio del 1488, agli increduli occhi del navigatore portoghese Bartolomeo Diaz, si aprì improvvisamente una baia amena ed uno spettacolare e verdissimo promontorio, che faceva da spartiacque tra il conosciuto e l’ignoto. Il navigatore sbarcò in quello che gli pareva un vero e proprio paradiso terrestre, e ivi piantò una gigantesca croce di legno, segno del suo passaggio, primo europeo ad aver calcato quel suolo, estremo sud dell’Africa e del mondo fino ad allora conosciuto. Bartolemeo Diaz chiamò quel luogo, perciò, Capo di Buona Speranza. Il navigatore portoghese non poteva immaginare che incominciava, così, una delle più sanguinose e crudeli storie di incontri tra popoli di questa terra. Dopo le prime “croci” portoghesi, e i primi incontri più o meno pacifici con le popolazioni locali, furono gli olandesi, i cosiddetti Boeri, sul finire del XVII secolo a stabilire, grazie alla loro Compagnia delle Indie, una colonia stabile in Sudafrica. L’attuale Città del Capo, oggi bella e ariosa città che volge lo sguardo al fresco oceano di mezzogiorno, nacque così, da un contingente di coraggiosi contadini olandesi e ugonotti francesi in fuga dalle guerre di religione europee. Si stabilirono subito vantaggiosi rapporti commerciali con le popolazioni locali, gli Xhosa, una etnia di origine Bantù, dedita alla pastorizia seminomade. Ben presto, però, la colonia si moltiplicò di numero e incominciò ad espandersi verso l’interno, appropriandosi dei pascoli degli Xhosa ed entrando in conflitto con la visione del mondo dei pastori africani. Il conflitto fu inevitabile, e si risolse, nel tempo, con il confinamento in ambiti sempre più ristretti degli Xhosa. Nel frattempo, i Boeri, per poter assoggettare quelle terre selvagge, avevano preso l’uso di alimentare il traffico di schiavi africani e asiatici, che univano agli Xhosa sottomessi. Le angherie, le stragi, gli inganni, le torture, il genocidio subito dalla popolazioni locali, fanno parte di una più ampia storia del colonialismo in Africa, di cui ancora vige, in Europa, molta reticenza storiografica. Ma quella parte del mondo, una sorta di paradiso in terra, non poteva restare così per lungo tempo fuori dai destini di altre popolazioni del pianeta. Fu così che il paradiso terrestre si trasformò in un inferno ancora peggiore. Giunsero gli inglesi, ai primi dell’800, ed entrarono in conflitto, inevitabilmente, con i boeri, da almeno tre generazioni in Africa, tanto da considerarsi, ormai, “Afrikaner”. I Boeri preferirono alla difficile convivenza con gli inglesi, da cui erano malvisti, la strada dell’avventura, spingendosi sempre più a nord verso terre sconosciute, entrando in contatto, spesso cruento, con le popolazioni locali con la quale si imbattevano. La scoperta dell’oro e dei diamanti, finì per scatenare altre guerre tra boeri ed inglesi, verso la fine dell’800. Guerre trasversali dove le varie etnie africane finirono per allearsi con gli uni o con gli altri. Nel frattempo, infatti, una formidabile etnia guerriera era discesa dal nord, i temibili Zulù, che altro non erano che una popolazione di origine Ngoni mescolata, a quanto pare, con fuggiaschi delle prime colonie e popolazioni in fuga dalle razzie schiaviste. Erano genti che conoscevano ormai la mentalità avida ed ingannevole dei bianchi. Erano gli indomiti, insomma, e non avevano paura di nessuno. Il Sudafrica, paradiso in terra, giunse così, ai giorni nostri, come il paese delle diffidenze reciproche, delle simpatie verso il nazismo, delle riserve per i Bantù, dei ghetti, di luoghi pubblici divisi, di una nazionale di rugby “bianca” e una nazionale di calcio “nera”, di una minoranza bianca, che con il 13 per cento della popolazione controllava quasi tutte le risorse della nazione. Il paese dell’apartheid, insomma, rifiutato dall’Onu e dal consesso delle nazioni civili, alla quale veniva persino vietato di partecipare alle Olimpiadi e alle altre manifestazioni sportive. Poi accadde il miracolo, di quell’uomo di etnia Xhosa tenuto in carcere per 27 anni, che è riuscito, negli anni ’90 del XX secolo, grazie ad una incrollabile fede nell’uomo, nella pace, e nel perdono, a riunire tutte le componenti di un popolo che, ancora, non sapeva di esserlo. E l’immagine più bella di questo miracolo, è certamente la stretta di mano tra il vecchio, diventato Presidente del Sudafrica, e il giovane capitano della nazionale di rugby che, in casa, aveva appena sconfitto nella finale dei campionati mondiali i temibili neozelandesi. Grazie a Mandela, la nazionale di rugby era diventata “one team, one country”. Oggi il Sudafrica è diventato, finalmente, una nazione, con mille problemi da risolvere e mille disparità economiche tra i bianchi e i neri. Ma il popolo è uno. Ma tutte queste cose, Bartolomeo Diaz, quella mattina del 3 febbraio del 1488, non poteva neppure sognarsele.
Fiorenzo Caterini, cagliaritano classe '65. Scrittore, antropologo e ambientalista, è studioso di storia, natura e cultura della Sardegna. Ispettore del Corpo Forestale, escursionista e amante degli sport all'aria aperta (è stato più volte campione sardo di triathlon), è contro ogni forma di etnocentrismo e barriera culturale. Ha scritto "Colpi di Scure e Sensi di Colpa", sulla storia del disboscamento della Sardegna, e "La Mano Destra della Storia", sul problema storiografico sardo.
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