Il 3 aprile 1971 era un sabato di quaresima. Il giorno successivo si sarebbe festeggiata la domenica delle palme, l’ingresso di Gesù a Gerusalemme poco prima di essere ucciso. Avrei compiuto dodici anni tra qualche mese. Mio fratello, invece, di anni non ne aveva neppure nove. Si viaggiava con una Fiat cinquecento color bianco latte con la targa SS46818, con mia madre al volante fresca di patente di qualche anno. La fiat 500 era il nostro mezzo di locomozione quando da Alghero si doveva andare a trascorrere le feste in Gallura, dai nonni. Negli stazzi immensi e verdi, almeno in quel periodo dell’anno. Il 3 aprile 1971 alle 17.30, in località “li muri” a 5 km. da Arzachena venivano sequestrati Giovanni Maria Ghliardi e suo figlio di appena nove anni Antonio Agostino. Le vacanze pasquali cominciarono il martedì successivo e mia madre decise per la partenza in Gallura per la gioia mia e di mio fratello. Avremmo potuto giocare liberamente con i cani da caccia, visitare i vitelli e le capre, intraprendere lunghe sfide a pallone nel prato davanti allo stazzo per ore interminabili. Il 6 aprile 1971, intorno alle 16.00 arrivammo ad Oschiri. A quei tempi si passava sempre per il paese e solitamente il bar sulla strada era la pausa obbligata per far prendere fiato alla 500 e acquistare dolci e caramelle. Alle 16.30 circa, stavamo per arrivare a Monti. La strada obbligava, allora, anche il transito in questo piccolo paese che segnava il confine tra noi e la gallura. Almeno così pensavo a quei tempi. Per me, infatti, Monti era il primo paese che odorava di “stazzo” e mi sentivo incredibilmente a casa. La 500 camminava molto lentamente. Mia madre difficilmente superava i 70 km. orari. La lentezza era la filosofia di quegli anni. La paletta della campagnola dei carabinieri ci fu mostrata con decisione. C’erano moltissimi carabinieri in quello che si chiama in gergo “posto di blocco”. Mia madre, piuttosto spaventata, bloccò l’auto e attese che il carabiniere si avvicinasse. Era un uomo molto alto e fondamentalmente burbero, con voce, almeno credo di ricordare, decisamente continentale. Chiese il libretto e la patente. Scrutò l’assicurazione e il bollo in evidenza sul cruscotto e controllò le ruote. Era il 6 aprile 1971. Martedì santo. “Sono suoi figli, questi?” chiese in maniera brusca. “Certo”, rispose mia madre. Non si fidava. I carabinieri, soprattutto se continentali, non si fidano degli indigeni. “Come si chiamano e quanti anni hanno?” chiese ancora il carabiniere. Mia madre rispose ancora, forse un po’ spaventata a quell’uomo con il mitra in mano che, comunque rappresentava la legge. “Lo sa che hanno sequestrato un bambino di appena nove anni?” Mia madre annui, rispose che l’aveva letto sul giornale, che lei viveva ad Alghero e questi erano i suoi figli e che le dispiaceva del sequestro perché erano cose terribili. Il carabiniere, questo lo ricordo bene, ci squadrò per l’ultima volta e disse: “Può andare. Stia attenta, questo è un posto che non fa sconti a nessuno.” Da Monti a Priatu ci fu un silenzio spettrale in auto. C’era una forte paura che qualcosa potesse e dovesse accadere. 3 aprile 1971. Un sequestro che fece scalpore. Un bambino di nove anni in mano a dei banditi. Lui e il padre furono liberati l’8 maggio tra Orotelli e Benetutti. Mia madre acquistò il giornale e subito lesse la notizia. Per lei fu come la fine di un incubo. Non ho mai capito se la paura fosse legata alla possibilità che potessimo essere sequestrati (cosa piuttosto remota, a dire il vero) o se, invece, avesse paura del carabiniere con il mitra. Fu il mio primo e vero impatto con il sequestro di persona. Con il sequestro di un bambino. Per me chiaramente fu un punto doloroso, non riuscivo a comprendere perché potessero, degli uomini, comportarsi in quel modo. Perché dovevano tenere un bambino come mio zio teneva i capretti in “lu cuali”, chiusi e segregati. Provai, in quei giorni a chiedere qualche motivazione ma nessuno, in realtà, aveva voglia di spiegarmi questa strana enormità. Mi sarebbe piaciuto conoscere i poveri sequestrati, mi sarebbe piaciuto conoscere Agostino e chiedergli cosa si prova in quei terribili momenti. Il destino, però disegna strade diverse e le mie incontrarono altri occhi. Conobbi, negli anni successivi, i colpevoli di quel sequestro. Era intorno agli anni novanta. All’Asinara. Oggi sono tutti liberi e qualcuno di loro è morto. Ebbi il coraggio di chiedergli il perché di quel gesto e ottenni solo vaghe e intrecciate risposte. Ho sempre pensato si vergognassero del sequestro. Non c’era in loro la giustificazione legata alla rivalsa, allo stato di necessità. Erano probabilmente al primo sequestro, seppure ben preparati e disposti a tutto. Per me la storia dei sequestri in Sardegna comincia proprio il 3 aprile del 1971. Ad appena dodici anni. Mi rimane sempre il ricordo di quello strano carabiniere, del mitra, delle sue domande, di quegli strani attimi. Mi rimane, inoltre, la storia di quel sequestro vissuta dalla parte dei “cattivi”. Conosco a memoria la sentenza, i colpevoli, le giustificazioni. E’ stato il mio primo sequestro. Ho mantenuto negli anni un atteggiamento sospeso: molte volte si son confusi i ruoli nei sequestri di persona. Molte volte ci sono stati errori giuridici consapevoli, giusto per arrivare ad una certa verità. Una cosa l’ho capita: non esistono sequestri cattivi o sequestri buoni. Esistono sequestri, che sono crudeltà indicibili, lasciano il segno indelebile a chi li subisce e qualche piccolo segno a chi li ha compiuti.
Oggi, per fortuna la piaga dei sequestri è stata debellata. Questione di cultura, dicono, o di modernità. Ci ho convissuto per troppo tempo, dal piccolo Ghilardi a Titti Pinna. Ho raccolto troppe parole e molti sguardi. Il sequestro è esploso nella mia vita fin dall’adolescenza. Negli anni, pur leggendone le storie non posso giustificarlo e, comunque, non riuscirò mai a capirlo. Mi rimane quella frase, detta dal carabiniere nel 1973, quando ci fermò al posto di blocco: “Questo è un posto che non fa sconti a nessuno”. Sono d’accordo ma in un altro senso: questa terra non può fare sconti a nessuno. Neppure ai sequestratori. Soprattutto ai sequestratori.
Nato a Oristano. padre gallurese, madre loguderse, ha vissuto ad Alghero, sposato a Castelsardo e vive a Cagliari. Praticamente un sardo DOC. Scrive romanzi, canta, legge, pittura, pasticcia e ascolta. Per colpa del suo mestiere scommette sugli ultimi (detenuti, soprattutto) e qualche volta ci azzecca. Continua a costruire grandi progetti che non si concretizzano perché quando arriva davanti al mare si ferma. Per osservarlo ed amarlo.
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