Le Brigate Rosse intendevano distruggere lo stato imperialista delle multinazionali e per farlo cominciarono una guerra, tutta personale, contro il cosiddetto “cuore dello Stato italiano”. Fu una guerra scellerata in nome di un popolo che non conoscevano molto bene e, soprattutto, una massa che non li avrebbe mai seguiti in una lotta complessa e difficile da mettere in pratica. Nonostante avessero le armi di alcuni vecchi partigiani (lo confessò Franceschini nel libro “Mara, Renata ed io”) tutto era cambiato e non c’era nessuna libertà da conquistare. La Democrazia, negli anni settanta, seppur con qualche rigurgito fascista, con molti depistaggi attuati dai servizi segreti e con una strategia della tensione sempre piuttosto alta, era comunque una conquista consolidata. Le brigate rosse non ammettevano troppe discussioni e nelle loro direzioni strategiche (peraltro alquanto piramidali) si votava e si decideva la linea, senza nulla chiedere al fantomatico popolo, omicidi compresi. Le Br partivano da un presupposto piuttosto banale: ci si doveva liberare di un nemico che aveva distrutto il paese e minato la democrazia, aveva imposto l’americanizzazione dello Stato e limitato la libertà. Tutti concetti molto alti e zuppi di ideologia. Se capitate davanti ad un loro comunicato (quelli più importanti sono del periodo del rapimento dell’Onorevole Moro) vi renderete conto quanta retorica e quanta demagogia c’era in quelle parole. C’era la voglia, forsennata, di voler convincere il popolo a seguirli senza, però, svolgere nessuna azione politica che presupponeva, per esempio il passaggio parlamentare. Si limitavano a produrre comunicate e dire: “lasciate fare a noi, cancelleremo in vostro nome tutti i parassiti che si nascondono nello Stato imperialista e molti di loro li condanneremo a morte, in nome del tribunale del popolo. Sono profondamente convinto che i capi storici sapessero benissimo che quella rivoluzione in Italia non poteva avere nessun seguito. Gli italiani, da sempre, amano parole semplici, facili da digerire e non chiedono un futuro radioso gonfio di felicità, ma piccole cose: eliminare migranti, albanesi che svaligiano le loro ville e, se possono, legalizzare attraverso il condono tutte le malefatte compiute per “necessità”. Le brigate rosse non promettevano questo programma e la loro piattaforma era troppo politica e incomprensibile. Ma era gonfia di odio, disprezzo nei confronti degli altri. La loro analisi squisitamente politica si trasformò spietatamente in morte e distruzione. Lo fecero anche con chi non era più d’accordo con la loro “linea”. Utilizzarono lo stesso metodo della mafia: se non riesci a colpire il traditore uccidi un suo parente. Questo fu l’inizio della fine di un gruppo che riteneva di essere politico: la decisione di uccidere, il 3 agosto 1981 Roberto Peci, fratello del pentito capo delle Br di Torino quel Patrizio che decise di parlare con i giudici del presunto Stato imperrialista segnò, se ancora ce ne fosse bisogno, il confine tra la politica e l’orrore. Ho riflettuto molto su queste cose in questi ultimi giorni e ho riflettuto anche sulla frase di Vittorino Andreoli, il noto psichiatra che in un’intervista ha recentemente dichiarato: “Oggi domina la cultura del nemico: la superficialità porta l’identità a fondarsi sul nemico. Se uno non ha un nemico non riesce a caratterizzare se stesso. Questa è una regressione antropologica perché si va alle pulsioni. Tutto questo è favorito da partiti che sostengono l’odio, lo stesso agire sociale è fatto di nemici. Perfino nelle istituzioni religiose qualche volta si affaccia il nemico. In questo quadro tornano le questioni razziali.” Le brigate rosse, a guardare bene, coltivavano la cultura del nemico e uccidere il fratello di un ex-brigatista è stata una regressione antropologica che li ha costretti a giocare con le pulsioni primordiali. E hanno, per nostra fortuna, perduto la loro folle battaglia. Sono cose passate, direte voi. Certo, cose passate. Però è sempre meglio ricordarli questi strani passaggi che hanno modificato il nostro paese.
Nato a Oristano. padre gallurese, madre loguderse, ha vissuto ad Alghero, sposato a Castelsardo e vive a Cagliari. Praticamente un sardo DOC. Scrive romanzi, canta, legge, pittura, pasticcia e ascolta. Per colpa del suo mestiere scommette sugli ultimi (detenuti, soprattutto) e qualche volta ci azzecca. Continua a costruire grandi progetti che non si concretizzano perché quando arriva davanti al mare si ferma. Per osservarlo ed amarlo.
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