di Maria Dore
Qualche giorno fa un articolo de La Nuova Sardegna riportava le parole di Stefano Benni, ospite a Uta per il festival itinerante “Sulla Terra Leggeri”. Il tema era la satira: “Mi sono stancato di vedere spettacoli di satira davanti alla platea dei politici. Ogni tanto qualche schiaffo dovrebbe partire, se no è tutto un vogliamoci bene”.
Queste parole calzano con la figura del comico e autore satirico Lenny Bruce, che moriva il 3 agosto del 1966, in seguito ad un’overdose. Non aveva pietà per nessuno: chiamava “negri” i neri, i gay erano “froci”. Ogni parolaccia gli costava una visita della polizia, perché “è la repressione a dare forza ad una parola”. L’immagine di un crocifisso non lo intimidiva, così come il ricordo delle sue origini ebraiche: “Se Gesù fosse stato eliminato vent’anni fa, i bambini delle scuole cattoliche, invece di portare delle croci appese al collo, indosserebbero catenine con tante piccole sedie elettriche”. Due frasi riferite a Nixon e Johnson, potrebbe benissimo essere utilizzate oggi, per Trump o la Clinton: “Amo essere americano. Ma vorrei essere un cane, e vorrei che Nixon fosse un albero”; “Si chiama evoluzione. La prossima volta eleggeremo Pippo”. Probabilmente lo sdoganamento della parolaccia aveva un senso, ai tempi di Bruce. Oggi l’utilizzo del turpiloquio non sorprende più nessuno e anzi, dietro di esso si cela, talvolta, la stanchezza della fantasia. Fu lui a liberalizzare il vaffa antigovernativo: “Levate il diritto di dire “vaffanculo” e leverete il diritto di dire vaffanculo il Governo”. Chissà cosa avrebbe pensato Bruce di chi, partendo col Vaffa, al governo ci è quasi arrivato.
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