Per gli oscuri motivi dell’imponderabile umano, la musica, avvicinandosi alla morte, diventa impareggiabile. L’incompiuta di Schubert, il Requiem di Mozart, la Turandot di Puccini. Puccini era consapevole che quello era il capolavoro della sua vita. Ma ormai da anni lottava con quel suo finale senza riuscire a terminarlo. Un finale che doveva essere gioioso, in controtendenza con la tragedia tipica dell’opera. Un finale che doveva essere un trionfo dell’amore, un’esplosione di suoni e di colori. Ma la musica gli si era incagliata lì, alla morte della giovane schiava Liù, come se la tragedia non volesse liberarsi dal sue triste destino. Il bruciore alla gola si faceva sempre più acuto. Un colpo di tosse. Prese il foglio pentagrammato, lo accartocciò, lo scagliò lontano. Una maledizione. Si sostiene che la Turandot abbia ucciso l’Opera, perché è stata l’ultima grande e ineguagliabile. L’arte, dopo la Turandot, ha preferito prendere altre strade di confronto. Puccini lottava in un letto di ospedale, il male alla gola avanzava, gli impediva di respirare, e di lavorare. Buttò giù 23 fogli con gli appunti del suo ultimo tentativo, prima di andare sotto i ferri. Correva l’anno 1924. L’anima del grande compositore, forse il più grande per quanto riguarda il genere operistico, si staccò dalle scarne membra terrene e si dissolse per le immaginifiche ali di quella musica ripetuta per tutti i luoghi del mondo e per tutte le epoche dei tempi a venire. Quando Franco Alfano, eccellente musicista, matematico e insegnante, prese in mano le partiture della Turandot, capì che la sua vita non sarebbe stata più la stessa. Avrebbe potuto dire di no ad Arturo Toscanini, il grande direttore d’Orchestra? Avrebbe potuto dire di no a Ricordi, il grande produttore? Avrebbe potuto dire di no alla famiglia di Puccini? Ma una strana sensazione lo pervase. Capì subito che finire quell’opera, anche con gli appunti del Maestro, era un rompicapo, non sarebbe stata un’equazione matematica. Tra le mani, una delle più grandi composizioni di tutti i tempi. Tra le mani, il capolavoro incompiuto del più grande compositore d’opera. E lui doveva terminarlo. Sono quelli i momenti in cui il senso della propria identità diventa una voragine interiore. Chi era lui, musicista normale, per dipingere il finale del capolavoro dei capolavori? Neppure Puccini era riuscito a terminare la sua opera, a dare un finale degno a quella bellezza assassina, devastante, quasi fosse venuta da un’altra dimensione dell’umano creato. Gli occhi scorrevano la partitura, le mani riproducevano la musica al pianoforte, la mente immaginava quelle note, quelle voci, quei cori, quelle esplosioni orchestrali. Ogni tanto si fermava, cercava di capire in quale soluzione innovativa si era sbizzarrito il maestro. La musica dell’opera si infrangeva ad ondate nell’anima del compositore, il sangue si faceva tempesta, la pelle evaporava e lui si perdeva, si perdeva in quel capolavoro. Alfano, girando e rigirando gli scarabocchi del finale di Puccini, fini per ammalarsi. Si ammalò di una strana malattia agli occhi. Poi finì per litigare per questioni di vile moneta con Ricordi, il produttore. Vile moneta, di fronte ad uno dei più grandi capolavori che il genio dell’uomo abbia mai prodotto. Che strana l’umanità. Ma Alfano non si arrese, e finì l’opera, tra mille peripezie e umiliazioni. Il giorno della prima, alla Scala di Milano, il 25 aprile del 1926. Arturo Toscanini dirigeva l’orchestra. Figlio, che fai? Cantò preoccupato il vecchio monarca invalido, cieco, mendicante, trascinato dalla giovane schiava Liù. Signore, ascolta! implorava la povera Liù, vera grande e sottaciuta eroina della tragedia pucciniana. Ecco uno dei momenti culminanti dell’opera: il giovane principe si arrischia, per amore, a sfidare la morte, mentre attorno tutti cercano di fermarlo. E’ un crescendo musicale inarrestabile, dove le voci riprendono le varie armonie dell’opera e le intrecciano fra loro e le rilanciano nell’aria fino al culmine, il battito del gong che segna nel medesimo tempo la fine e l’inizio del conflitto, l’apoteosi. E’ la stessa genesi dell’opera, nel frangente, che si concepisce come il conflitto interiore dell’uomo che, solo, nel letto di un ospedale, sposta con la forza dell’amore, dell’amore per la vita, quel limite, quel confine più in là, dove può. Nessun dorma. La tracotanza del folle, dello sciocco reso tale dalla passione, e d’altra parte lo sdegno, la freddezza di chi, tagliente, assiste sarcastica all’altrui follia. L’amerai anche tu, però, sussurrò Liù, prima di uccidersi. La folla, carogna, che prima inveiva, ora si impietosisce, a quel delitto orrendo. Fa sempre così, la folla carogna. Liù strappò l’arma ad uno sgherro e si uccise. Liù muore non prima di aver fatto capire, al mondo osceno, la bellezza di amare senz’altro e l’atrocità muta di morire per amore. L’amerai anche tu, disse, rivolgendosi alla tagliente Turandot. Ecco, quello è il punto straordinario e perfettamente congeniale, il momento in cui non solo Liù muore, ma muore anche Puccini. Quello è il limite della catastrofe artistica in cui, oltre a morire il maestro, muore anche tutta l’Opera. E quello è il momento che fa il suo ingresso in scena, davanti alla bacchetta severa di Toscanini, ai guanti bianchi dei violinisti del tempio dell’Opera, la Scala, davanti al popolo attento degli spalti, la musica dell’eccellente Alfano. Ecco. E invece no. Toscanini, piuttosto, ferma l’orchestra. Si volta e, rivolgendosi al pubblico, pronuncia le seguenti parole: “qui finisce l’opera, perché a questo punto il maestro è morto”. Il finale controverso e scarsamente apprezzato di Alfano, verrà eseguito, da allora, nelle rappresentazioni successive, ma quella volta no, non era il caso. Anche altri grandi compositori provarono a mettere mano agli appunti di Puccini, con discutibili risultati. Chi vorrà, oggi, grazie agli strumenti di internet, andare ed ascoltarsi le opere di Alfano, si renderà conto della straordinaria bravura compositiva di questo musicista. Ma il destino ha voluto che, ancora oggi, è conosciuto per la cosa più discutibile che ha fatto, il finale della Turandot. Forse non doveva, Alfano, cimentarsi con l’impossibile, sfiorare anche lui la morte per avvicinarsi all’assoluto, al punto in cui l’arte non può più tornare indietro, farsi carne e tornare umana. Forse era meglio restare un eccellente musicista, ma sconosciuto al grande pubblico, piuttosto che cedere alle lusinghe della gloria e turbare gli sconosciuti disegni del misterioso dio della creatività umana.
Fiorenzo Caterini, cagliaritano classe '65. Scrittore, antropologo e ambientalista, è studioso di storia, natura e cultura della Sardegna. Ispettore del Corpo Forestale, escursionista e amante degli sport all'aria aperta (è stato più volte campione sardo di triathlon), è contro ogni forma di etnocentrismo e barriera culturale. Ha scritto "Colpi di Scure e Sensi di Colpa", sulla storia del disboscamento della Sardegna, e "La Mano Destra della Storia", sul problema storiografico sardo. Il suo ultimo libro è invece un romanzo a sfondo neuroscientifico, "La notte in fondo al mare".
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