Alle quattro del mattino del 29 maggio 1931, nella caserma romana di Forte Braschi, un plotone d’esecuzione composto da ventiquattro volontari sardi uccide il sardo Michele Schirru, dando esecuzione ad una sentenza di morte pronunciata poche ore prima dal deputato fascista Guido Cristini, presidente del Tribunale speciale. Diceva così la sentenza: “Chi attenta alla vita del Duce attenta alla grandezza dell’Italia, attenta all’umanità, perché il Duce appartiene all’umanità”. Il processo era durato un giorno. La domanda di grazia compilata dall’avvocato D’Angelantonio non uscì mai dall’aula del tribunale.
Mike Schirru aveva programmato di uccidere Mussolini, ma quando la polizia di Arturo Bocchini lo sorprese nell’albergo Colonna di via Due Macelli, in compagnia dell’amante ungherese Anna Lukowski, forse aveva rinunciato al suo proposito, del resto già abbandonato un anno prima, al tempo del suo primo rientro in Italia dagli Stati Uniti. Per il Codice Rocco, intenzione era uguale ad azione: per chi solo avesse pensato di eliminare il dittatore, non poteva esserci che la fucilazione. Schirru era di Padria, provincia di Sassari. Che la sua figura dovesse incrociare la storia lo diceva già l’anno di nascita: 1899, la classe dei soldati ragazzini della Grande Guerra, alla quale partecipò senza tirarsi indietro. Non incontrò sul fronte il capitano Emilio Lussu, ma lo conobbe comunque poco prima della sua morte, in Francia, dove il padre del sardismo sopportava l’esilio. Schirru nel 1930 era tornato dagli Stati Uniti, dove si era ormai stabilito prendendo persino la cittadinanza americana. Per questo, dai documenti risultava chiamarsi Mike.
Viveva dignitosamente vendendo frutta e verdura in un chiosco sul mare, a New York, dove si era sposato. Chissà come dovevano sembrargli lontane Padria e la Sardegna, dai docks della Grande Mela! Del resto, dopo la Guerra non c’erano molte possibilità di lavoro e l’emigrazione era quasi una via obbligata. A meno che non si cercasse di entrare nelle grazie di qualche gerarca fascista per fare carriera, strada percorsa da un altro reduce dalle trincee: proprio quel Guido Cristini, giovanissimo presidente del Tribunale speciale che qualche anno dopo avrebbe condannato a morte l’anarchico sardo.
Ma l’animo di Schirru era irrequieto, idealista, amante della libertà. Contro il regime alimentava una profonda avversione, né poteva essere placato da quel relativo benessere conquistato in America. Iniziò a frequentare il gruppo anarchico “Adunata dei refrattari”, un manipolo di antifascisti italiani emigrati che negli Stati Uniti pubblicava una rivista politica. Nel 1930, il suo odio contro Mussolini lo spinse nuovamente in Europa. Prima in Francia, poi in Italia, infine nuovamente in Francia, dove la famiglia del padre si era stabilta. Qui, l’ultimo dell’anno, scrisse una lunga lettera che era un manifesto politico, intriso di una totale voglia di annientamento verso il fascismo e il suo capo. In quella lettera, Schirru si definiva “vindice”, vendicatore, ma si dimostrava pienamente consapevole, quasi certo, che il suo piano potesse fallire e portarlo alla morte.
Quel che Mike da Padria non sapeva era che il capo della polizia Bocchini era informato sulle sue abitudini e sui suoi spostamenti, spiate da infiltrati fascisti fin da quando era in America. Ci si aspettava che l’attentato avvenisse durante un’adunata a Milano, alla presenza del duce, ma Schirru vi rinunciò, per riprovarci l’anno dopo, soggiornando a Roma per cercare l’occasione propizia. Ma qui incontrò Anna, l’intrigante ballerina ungherese. E la passione dei sensi prevalse su quella politica, distogliendo Mike dal suo obiettivo principale. Quando la polizia lo intercettò, durante un controllo casuale, lui era nella stanza di lei. Venne arrestato e, mentre lo portavano in Questura, cercò di farla finita sparandosi. Ne risultò sfigurato, ma sopravvisse. Il tempo necessario per passare tre mesi in isolamento ed essere processato. La polizia aveva trovato nella sua camera due bombe a mano e molte prove sul suo piano che, del resto, lui ammise, quando Cristini espressamente glielo domandò. All’alba del 29 maggio, 24 suoi corregionali in camicia nera lo attendevano nel piazzale di Forte Braschi. Il giorno dopo, L’Unione Sarda liquida in poche righe l’esecuzione, così incasellando il condannato: “La colpa di Schirru era infatti doppia, oltre che anarchico egli si era anche ormai “americanizzato”, e in quanto tale non era degno di alcuna considerazione”. Pare che Mussolini stesso , qualche anno dopo, abbia espresso ammirazione per la fermezza di Schirru.
Ripensando a questo calvario e alla permanenza in Provenza della famiglia Schirru, mi è venuto in mente che per motivi professionali ero venuto a conoscere la vicenda umana di un anarchico livornese, Leonildo Biasci, coetaneo di Mike, fuggito a Marsiglia subito dopo l’avvento del fascismo. Biasci era sì anarchico ma totalmente inoffensivo, contrario ad ogni forma di violenza. La figlia Eliane mi aveva raccontato che, tutte le volte che a Marsiglia arrivava qualche autorità, la polizia passava a casa con qualche giorno d’anticipo, rispetto alla visita dello statista o della testa coronata del caso. Leonildo veniva prelevato e tenuto in custodia dai gendarmi, fin quando la visita dell’autorità non era finita. Non c’era alcun sospetto nei suoi confronti, ma essere anarchici era una colpa a prescindere. Pino Pinelli e Pietro Valpreda, qualche anno dopo, lo avrebbero dimostrato.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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