Nei miei primi vent’anni ho dovuto assistere a momenti terribili per la formazione e per la comprensione del senso dello Stato: troppe morti, troppe prese di posizione errate. Tra gli omicidi che ricordo con particolare rabbia annovero quello del giudice Emilio Alessandrini giustiziato dagli estremisti di sinistra di Prima Linea il 29 gennaio del 1979. La ricordo come una giornata fredda e piena di sole. Dovevo incontrami con gli amici di sempre in passeggiata e poi recarmi in radio per registrare una trasmissione. Ci fu qualcuno che ci diede la notizia e rimase piuttosto disorientato. Alessandrini era stato il giudice che condusse, come sostituto procuratore a Milano, l’istruttoria sulla strage di Piazza Fontana, quella che portò per la prima volta lo Stato sulla strada della verità. Alessandrini, insieme a Gerardo D’Ambrosio, incriminò gli esponenti di estrema destra Franco Freda e Giovanni Ventura e, soprattutto, cominciò ad indagare sul coinvolgimento del Sid (servizio informazioni difesa) e del grigio personaggio che corrispondeva al nome di Guido Giannettini. Alessandrini fu ucciso mentre si recava al lavoro. A sparare al magistrato furono Sergio Segio e Marco Donat Cattin del gruppo di fuoco di Prima Linea. Decidemmo, in radio, di condurre un programma speciale sull’avvenimento coinvolgendo anche il pubblico. A quei tempi la diretta telefonica era molto partecipata. Mi colpì moltissimo la rivendicazione dell’assassinio da parte di Prima Linea che precisò di aver scelto Alessandrini perché il gruppo rivoluzionario considerava i giudici riformisti più pericolosi di quelli conservatori. Avevo vent’anni neppure compiuti, conducevo con altri colleghi il radio giornale dove si leggevano e commentavano i quotidiani. Il 30 gennaio lessi quanto scrisse Walter Tobagi (che sarà ucciso nel maggio dell’anno seguente) sul Corriere della Sera: «Sarà per quella faccia mite, da primo della classe che ci lascia copiare i compiti, sarà per il rigore che dimostra nelle inchieste, Alessandrini è il prototipo del magistrato di cui tutti si possono fidare; era un personaggio simbolo, rappresentava quella fascia di giudici progressisti, ma intransigenti, né falchi chiacchieroni, né colombe arrendevoli». Nei miei quasi vent’anni compresi subito da che parte stare: da quella di uomini come Alessandrini e di giornalisti come Tobagi. Non credo di essermi sbagliato.
Nato a Oristano. padre gallurese, madre loguderse, ha vissuto ad Alghero, sposato a Castelsardo e vive a Cagliari. Praticamente un sardo DOC. Scrive romanzi, canta, legge, pittura, pasticcia e ascolta. Per colpa del suo mestiere scommette sugli ultimi (detenuti, soprattutto) e qualche volta ci azzecca. Continua a costruire grandi progetti che non si concretizzano perché quando arriva davanti al mare si ferma. Per osservarlo ed amarlo.
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