La storia della rivoluzione francese mi ha sempre affascinato. Come Napoleone d’altronde. Non so, ma ho sempre guardato la Francia con molto affetto anche se, a dire il vero, agli inizi del novecento gli italiani erano considerati molto male da quelle parti: macaronì, ci chiamavano e venivamo trattati più o meno come noi oggi ci comportiamo con gli extracomunitari. Con assoluto disprezzo. Eppure la rivoluzione francese, come tutte le rivoluzioni, partiva dal concetto di liberare il popolo dai soprusi e dalle angherie dell’imperatore o del despota di turno. Le rivoluzioni finivano sempre in un bagno di sangue e in una distruzione totale di ciò che prima rappresentava il potere. Si bruciavano i palazzi, si sbriciolavano le statue e si modificavano i nomi (Mussolinia divenne, dopo la caduta del fascismo, Arborea). Le rivoluzioni avevano poco di poetico se ci pensiamo bene anche se il tempo costruisce quasi l’alone della leggenda intorno. La rivoluzione francese aveva, per me, dei nomi bellissimi. Due fra tutti: Robespierre e Louis Antoine de Saint-Juste. Erano nomi assolutamente diversi tra loro: il primo duro e forte (pensatelo con la erre moscia) l’altro, invece di una dolcezza quasi infinita. Finirono ghigliottinati, colpa di Joseph Ignace Guillotin (altro nome apparentemente dolce) che nel 1789 presentò un progetto rivoluzionario che prevedeva, nel caso di applicazione della pena di morte, un supplizio uguale per tutti: una macchina con la quale: “sarebbe saltata la testa in un batter d’occhio, senza nessuna sofferenza.” Quell’aggeggio terribile fu utilizzato durante la rivoluzione e si concluse con il far ruzzolare le teste anche dei rivoluzionari. Il 28 luglio 1798 le teste di Robespierre e Saint Just finirono nella polvere. Ma rimasero nella storia. Quella di una rivoluzione che modificò, comunque, gli assetti dell’Europa.
Nato a Oristano. padre gallurese, madre loguderse, ha vissuto ad Alghero, sposato a Castelsardo e vive a Cagliari. Praticamente un sardo DOC. Scrive romanzi, canta, legge, pittura, pasticcia e ascolta. Per colpa del suo mestiere scommette sugli ultimi (detenuti, soprattutto) e qualche volta ci azzecca. Continua a costruire grandi progetti che non si concretizzano perché quando arriva davanti al mare si ferma. Per osservarlo ed amarlo.
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