Aveva chiesto di non fare troppi pettegolezzi. E aveva deciso, probabilmente lucidamente, di non scrivere più. Perché aveva scelto di uccidersi? Brutta domanda. Bruttissima. Scriveva: “Non ci si uccide per amore di una donna. Ci si uccide perché un amore, qualunque amore, ci rivela nella nostra nudità, miseria, inermità, amore, disillusione, destino, morte.” Lui, “quel Cesare perduto nella nebbia” come cantava Francesco De Gregori, il 27 agosto 1950 decideva di togliersi la vita presso l’Albergo Roma, a Torino. Non lontanissimo dalle sue colline e dalle su langhe. Lo ammetto, Cesare Pavese è stato lo scrittore preferito della mia adolescenza. All’esame di maturità ho portato una tesina sul suo suicidio e su quello “cercato” di Pier Paolo Pasolini. Ho camminato per anni con le sue parole dentro la mia vita: “Un chiodo tira un altro, ma quattro fanno una croce,” lo scrisse solo dieci giorni prima di morire; subito dopo aggiunse: “I suicidi sono omicidi timidi. Masochismo invece che sadismo”. Ho imparato a memoria “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”. Mi piaceva l’idea di chiamarmi Pablo, come il protagonista de “Il compagno”: “Mi dicevano Pablo perché suonavo la chitarra.” Ero profondamente immerso delle parole e delle storie di Cesare Pavese. Ho idealizzato le sue colline, le vigne, i “paesi suoi” tanto che, da grande, ci andai come si va in pellegrinaggio. Visitai Bra, San Stefano Belbo e arrivai a Torino, in Piazza Carlo Felice. Mi sedetti in un bar davanti a quell’albergo che lo aveva visto scrivere le sue ultime parole. Ordinai un bicchiere di barbera. Non so spiegare neppure il perché. Idealmente è stato un abbraccio immenso ad uno scrittore che ha riempito una parte della mia vita. E ho scoperto quanto amore c’è dentro le parole. E quanta immensa passione si nasconde in quel signore che perduto nella nebbia aspettò per oltre sei ore una ballerina. Come scriveva lui: “Non si ricordano i giorni, si ricordano gli attimi”. Lui per me è stato un attimo lungo una vita.
Nato a Oristano. padre gallurese, madre loguderse, ha vissuto ad Alghero, sposato a Castelsardo e vive a Cagliari. Praticamente un sardo DOC. Scrive romanzi, canta, legge, pittura, pasticcia e ascolta. Per colpa del suo mestiere scommette sugli ultimi (detenuti, soprattutto) e qualche volta ci azzecca. Continua a costruire grandi progetti che non si concretizzano perché quando arriva davanti al mare si ferma. Per osservarlo ed amarlo.
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