C’è una Gerusalemme, in Africa. Si chiama Nkamba ed è un villaggio situato nel basso Congo. Viene chiamata proprio così, nouvelle Jerusalem, nella lingua importata dai colonizzatori belgi insieme alla loro religione. Nkamba è considerata una città santa perché diede i natali, nel settembre del 1889, a Simon Kimbangu, il profeta di Cristo. Un profeta nero e, proprio per questo, da eliminare.
Kimbangu fu battezzato dai protestanti britannici della Chiesa Battista, ai quali era stato affidato da bambino dopo la morte della madre. Missionari protestanti e cattolici, in quegli anni, provvedevano all’evangelizzazione dei nativi, seppur con sensibilità differenti; più tolleranti con i costumi e le usanze locali i primi, molto meno i secondi. Kimbangu divenne un catechista e imparò a leggere e scrivere i testi della Bibbia.
Di ritorno da un viaggio a Kinshasa, nel 1920, cominciò a far parlare di sé per una serie di guarigioni e miracoli. Raccontò di essere stato spinto ad agire da una serie visioni. Le voci che sentiva dentro di sé, lo spingevano a portare la parola e il conforto di Gesù Cristo agli uomini, ad aiutare gli ammalati. Lui guariva la gente con l’imposizione delle mani in un Paese dove la malattia del sonno e la “spagnola” mietevano vittime e dove l’insofferenza verso il dominio e lo sfruttamento degli occidentali cominciava a montare. Era riuscito, in qualche modo, ad africanizzare il cristianesimo, avvicinandolo all’anima del suo popolo e, particolare importante, senza mai alimentare odio e intolleranza nei confronti dei bianchi. Non c’era politica, nelle sue prediche e nelle sue gesta. Agiva in nome e per conto di Gesù Cristo. Ma tanto bastò per renderlo pericoloso agli occhi degli amministratori della colonia e dei “detentori” della parola di Dio giunti dalla lontana Europa.
Quando si sparse la voce che Kimbangu aveva resuscitato una donna, nell’amministrazione della colonia si accese l’allarme rosso. Nel 1921, funzionari coloniali e missionari si riunirono e decisero che era giunto il momento di arrestare Kimbangu. La “Force publique” raggiunse Nkamba, saccheggiò il villaggio, causando la morte di un bambino e alcuni feriti ma il “pericolo pubblico” riuscì a fuggire. Si consegnò spontaneamente all’autorità coloniale tre mesi dopo. Fu processato davanti a un Consiglio di guerra, senza avvocato e senza possibilità di appello. Vista la difficoltà di trovare prove su attività sediziose e rivoluzionarie, la Corte interpretò in chiave anti coloniale una sua frase: “I neri saranno bianchi e i bianchi saranno neri”. Parole che rappresentano il senso della cristianità, valsero a Kimbangu una condanna a morte.
A Kinshasa tutto era pronto per l’esecuzione quando, da Bruxelles, inaspettatamente, arrivò la grazia da parte del re del Belgio, Alberto I. Kimbangu finì in un carcere del Katanga, dove trascorse il resto della sua esistenza, quasi sempre in isolamento e senza mai far parlare di sé per atti di violenza. Come sempre accade in questi casi, la persecuzione ottenne l’effetto opposto. La fama del profeta nero acquisì consistenza e oggi il kimbanguismo è una religione cristiana che vanta 17 milioni di fedeli.
Se Simon Kimbangu avesse avuto la pelle bianca e fosse nato da qualche parte in Europa, oggi forse parleremmo di un santo oppure di uno dei tanti personaggi mistici oggetto di culto e venerazione. La sua storia, comunque, è pericolosamente simile a quella di chi, nella vieille Jerusalem, trovò la morte su una croce. Deve averlo pensato anche il re del Belgio.
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