Oggi sono tre anni esatti dalla morte di Placido Cherchi, antropologo e studioso delle dinamiche sarde. Sono sempre rimasto affascinato dal suo modo di raccontare, quel partire dal vissuto personale per traslare i ricordi in un contesto complessivo. Spesso l’agenda di Sardegnablogger racconta vita e opere di persone senza dar loro voce. Oggi preferisco riproporre un brano di uno scritto di Cherchi. S’intitola “Due o tre cose, per decidere di essere sardi” e lo trovate nel sito della Fondazione Sardinia. Non devo aggiungere altro, se non augurarvi una buona lettura.
“Il nostro mondo era un piccolo agglomerato industriale – per la precisione un cantiere idroelettrico della Società Elettrica Sarda – situato nel Capo di Sopra, a una ventina di chilometri da Oschiri, ma un po’ a cavallo fra Logudoro e Gallura. Luogo di molte provenienze etno-linguistiche, il Coghinas era un microcosmo babelico che aveva accumulato maestranze specializzate in gran parte cagliaritane e “continentali” (perlopiù venete e liguri), rigorosamente estranee alla cultura e alla lingua del territorio circostante. Prima che una koinè imposta come medium comune dal forte divario delle diverse provenienze linguistiche, l’italiano era un segno di separazione -distinzione dalle genti del luogo. Tra l’altro, in bocca ai cagliaritani, che sapevano usare il sardo solo per raccontare le barzellette su Peppinedda (un famoso omosessuale di queste parti), l’italiano diventava il vessillo della sicumera etno-sociocentrica ostentata da questa aristocarazia operaia nei confronti del contesto agro-pastorale della Gallura del dintorni, o nei confronti degli oschiresi. Era la lingua della tecnologia più avanzata che si opponeva al “dialetto” dei saperi circolanti nella nostra tradizione. Il senso di tutto questo era molto esplicito e diventava addirittura corposo nel modo di fare degli idioti più ingenui. Come metafora estrema di quella sicumera ricordo il caso di un famoso coglione (un dirigente della SES) che si faceva accompagnare a Chilivani per non prendere il treno a Oschiri. Ma c’è pure il caso di un elettromeccanico assai abile nel suo mestiere che tenne a battesimo l’ultimo nato di una famiglia dei dintorni presentandosi alla cerimonia vestito con la sua tuta da lavoro. Insomma gli aspetti negativi del rapporto città-campagna si riproducevano qui nelle loro forme più esplicite, anche se a rappresentare il polo-città, in questo caso, era solo un frammento di quel capitale industriale che stava “elettrificando” il sottosviluppo e illuminando di sé le tenebre dialettali” dei ritardi storici. Non occorre molta fantasia per capire come, in un orizzonte di questo tipo, la parte sardofona della mia famiglia dovesse cadere sotto il mirino della falsa coscienza italianofona e patire le sottili esclusioni ingenerate da quella fenomenologia. Tanto più che nostro padre, uomo orgogliosissimo e di rara intelligenza, riusciva a portare sempre all’incandescenza le contraddizioni esistenti, rispondendo con disprezzo al disprezzo e sfottendo a morte le fisime di modernità di questa aristocrazia operaia. Laddove gli altri si guardavano bene dall’ avere rapporti con la gente degli stazzi, la nostra casa era sempre aperta ai galluresi di passaggio e ricordo di aver condiviso tante volte il letto con ragazzi della mia età, sorpresi dalle tenebre in qualche loro faccenda fra stazzo e stazzo o fra stazzo e paese. Benché il Coghinas fosse un santuario dell’ elettricità e della sua produzione, e mio padre fosse addetto alla manutenzione delle linee dell’ alta tensione, gli elettrodomestici a casa mia erano rigorosamente banditi. Mamma continuava a cucinare in sa tribide, a conservare le cose deperibili in s’aposentu friscu, a lavare in sa balza e a fare il pane in su fùrru a linna. E io dovevo gioocarmi un bel po’ delle vacanze estive per aiutare mio padre a far la provvista di legna nelle boscaglie di chessas e aliderros. Se so ancora maneggiare la roncola con la normale abilità di un boscaiolo, lo devo alle reiterate campagne tardo-estive vissute con babbo tra Corrapala e la punta di la Ctsterra, a due passi dal crinale che apre il varco verso punta Lanzinosa. Cucina-economica, frigorifero e radio sarebbero entrati molto più tardi, quando io e mio fratello eravamo già al liceo e quando nelle altre famiglie televisore e microonde erano già cosa vecchia. Il riscaldamento elettrico non riuscì mai a sostituire sa ziminera, benché negli ultimi anni di Coghinas fosse diventato difficile trovare un carro a buoi che facesse il trasporto della legna dal punto di raccolta a casa. L’ostinazione passatista di mio padre si sarebbe piegata solo più in là, quando l’impossibilità di ricorrere al carrulante di sempre avrebbe cominciato ad aprire il varco al trattorista. Solo a quel punto, i kilowatt della bassa tensione si riconciliarono con lo specialista del 70 mila che alimentava l’arsenale di La Maddalena, e anche a casa mia fu accettata qualche stufa a tre candele. Di tutto questo, naturalmente, noi ragazzi ci vergognavamo, così come ci vergognavamo delle mutande che babbo ripiegava fuori dai calzoni, a formare una sorta di fascia in luogo della cintola. Invidiavamo molto i nostri compagnetti per la “signorilità” dei genitori e per l’ascolto che essi sapevano prestare ai desideri dei figli o per la prontezza con cui sapevano accogliere le esigenze della famiglia. Le mie otto biciclette di oggi, per esempio, la dicono lunga sulla frustrazione di allora a proposito di una richiesta rimasta allo stato di desiderio. In realtà non sapevamo ancora renderci conto che, a differenza di babbo, nessuno di questi genitori “signorili” si sarebbe fatto in quattro per far studiare fuori i propri figli. Né sapevamo ancora apprezzare le notevoli capacità narrative di cui babbo ci dava quotidianamente prova, intrattenendoci con racconti di cui nessuno di noi ha perduto il ricordo. Se i genitori degli altri sapevano raccontare solo qualche modesta barzelletta, babbo era in grado di incantare per ore con un modo di conversare educato sul respiro e sui ritmi della grande affabulazione nostrana. Inevitabilmente, quando parlava lui, tutt’ attorno si veniva formando un orizzonte di attesa, con gente accovacciata sui tacchi o sdraiata sulle panche, perché si sapeva che la cosa non sarebbe stata fugace. Per molti anni i dopocena estivi del Coghinas hanno avuto come punto di convergenza la soglia di casa mia e i racconti di mio padre, malgrado le riserve che le mutande fuori dai calzoni e i molti passaggi in sardo suggerivano alla maggior parte degli ascoltatori. Più che la gradevolezza dei racconti appena sentiti noi interiorizzavamo, però, la percezione di quelle riserve e andavamo ingigantendo l’irritazione per la “diversità” a cui ci incollava l’anticonformismo del modo di essere di babbo. Era ovvio che ci vergognassimo anche del nostro sardo e che incoraggiassimo le piccole a sbrigarsela con l’italiano. Anzi, nella elementare dialettica operante a livello della nostra coscienza adolescente (ma operante di fatto anche nelle orribili semplificazioni che dominavano l’ideologia ufficiosa veicolata dalla gente del cantiere), il sardo passava per essere l’habitus più ovvio dell’arcaico, del sottosviluppo, della rozzezza, mentre l’italiano aveva in sé tutte le connotazioni dello sviluppo, dell’emancipazione, della modernità, ecc. Insomma, se il sardo ci pesava come un marchio, l’italiano ci sembrava addirittura un orizzonte del desiderio”.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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