Quel giorno del 1962 la Corte d’appello federale ordinò all’Università dello Stato del Mississippi di ammettere James Meredith, escluso perché nigger, negro, usato con tutto il disprezzo che la cultura sudista americana sa ancora esprimere. James era un kennediano, voleva a tutti i costi iscriversi a quell’ateneo che applicava la segregazione nonostante una sentenza della Corte suprema: incostituzionale la discriminazione nelle scuole pubbliche sostenute dai soldi di tutti i contribuenti. Il governatore segregazionista si oppose promuovendo manifestazioni con morti e feriti. Al mondo sembrò un’altra Guerra di Secessione, Kennedy sembrava Lincoln. Alla fine James fu il primo studente afroamericano di quell’università. È una delle mille storiacce del razzismo americano, di questo strano popolo che sa coniugare lo spirito della libertà collettiva con quello del diritto di ciascuno alla felicità individuale: l’unica Costituzione che lo contempli, mutuandolo dalla Dichiarazione di Indipendenza. E che insieme, però, è stato razzista quasi quanto Hitler, un Paese dove l’antisemitismo e l’eugenetica imperante nelle università di medicina furono messi all’angolo solo dalla guerra che bisognò dichiarare alla Germania, alleata del Giappone, dopo l’attacco di Pearl Harbor (“La bagassa di Hirohito” commentò quella notte il sagace proto sassarese del giornale fascista L’Isola quando l’agenzia Stefani diffuse la notizia: aveva subito capito che l’inevitabile ingresso degli americani avrebbe significato guai anche per l’italietta al seguito dei nazi). Negli Usa a partire dalla fine degli anni Cinquanta venne ridefinito in senso moderno il concetto di liberalismo, tolleranza e integrazione. Ma nei manicomi si praticavano elettroshock e lobotomia a scopi pseudo curativi e in realtà punitivi o semplicemente detentivi. Il Paese delle contraddizioni, dove un presidente nero dice al mondo che il sogno dell’integrazione non è più un sogno; e con sforzi eroici mette fine alle guerre folli del suo predecessore, ridisegna il concetto di welfare con una storica riforma che amplia l’assistenza sanitaria, si sbarazza con una mossa geniale dell’anacronistico e dispendioso nemico in casa cubano facendone un amico e offrendo una speranza all’economia collassata dell’isola di Fidel, avvia accordi con l’Iran togliendo sostegno ideologico e materiale al terrorismo islamico. Ma è la stessa America che spesso nel teatro europeo o con la rigida politica nel Medio Oriente conferma la sua vocazione imperialista, coltivando il retropensiero di vecchi arnesi come me: Obama o non Obama, il Vietnam con questi qui è sempre dietro l’angolo. Era un’immagine bestiale quella che ci arrivava in quegli anni Sessanta del razzismo americano. Ci sembrava inconcepibile. C’era la barzelletta su un americano in uno scompartimento ferroviario italiano che non capiva come noi non apprezzassimo la differenza tra un bianco e un nero, tra un ariano e un ebreo. Le croci infuocate del KKK che venivano pubblicate sulle prime pagine del Corriere o della Stampa, e Harper Lee, con il suo Mockingbird – il libro e il film con Gregory Peck – ci raccontavano un’America dove, ci dicevamo a sinistra e a destra, per gente come noi sarebbe stato difficile vivere. Quanto ci sentivamo superiori con la nostra cultura. Pensavamo a Lorenzo il Magnifico e a Beccaria. La civiltà occidentale eravamo noi italiani. L’altro passato lo avevamo rimosso: dalle stragi etniche nel Meridione dopo l’ “unità” d’Italia, mascherate da guerra al brigantaggio, sino all’iprite usata nell’aggressione all’Etiopia del 1936, ai massacri nei Balcani e in Jugoslavia, alle leggi razziali e al collaborazionismo con i nazisti che costò la vita a migliaia di ebrei italiani. In quegli anni Sessanta guardavamo sprezzanti questi barbari razzisti americani, convinti che anche i più fascisti di noi italiani non avrebbero mai innalzato croci di fuoco alle quali appendere negri, ebrei, musulmani e zingari. E non ci accorgevamo che semplicemente da qualche anno nessuno ci aveva messo alla prova. I neri o i musulmani in Italia erano una presenza episodica e limitata a quelli delle classi alte. Del mondo dell’Islam conoscevamo solo i folcloristici miliardari e gli imprenditori che si compravano i pezzi di Sardegna; e i neri che ci capitava di vedere erano atleti o ricchi intellettuali in visita di aggiornamento culturale. Poi è bastata un po’ di pressione ai confini, un’ondata migratoria anche inferiore a quella di tanti altri Paesi, per capire chi siamo veramente. Un sondaggio del giugno scorso del Pew Research Center ci colloca al primo posto in Europa per odio contro i rom e i musulmani. Per quanto riguarda gli ebrei siamo soltanto al secondo posto: ci ha fregato per un pelo la Polonia. Salvini e altri come lui non hanno esitato a costruire la loro fortuna politica su un sentimento che non hanno alimentato, non ne avrebbero avuto la stoffa da leader: era una pianta già florida, loro ne stanno soltanto raccogliendo gli sporchi frutti.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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