Maria Rosaria Costa, vedova di Vito Schifani, legge una preghiera rivolta agli assassini del marito. ANSA
Ero un po’ indeciso su dove aprire la Macchina del tempo, su quale dei tanti “oggi” che hanno preceduto quello che stiamo vivendo. Avrei voluto fare un salto al 25 maggio 1915, e mischiarmi alle fila dei soldati italiani che solo il giorno prima avevano varcato il Piave. Mi sarebbe piaciuto essere a La Maddalena, il 25 maggio del 1943, quando mio padre aveva solo 8 anni e forse era sfollato a Bortigiadas, e mia madre non era nata. Appena 24 ore prima un bombardamento di aerei alleati aveva preso di mira il paese. Se dovesse capitavi di passare per La Maddalena, date uno sguardo alla facciata del municipio. Noterete che le due colonne di granito ai lati dell’ingresso, presentano buchi e scalfiture. Sono i segni della bomba caduta su uno dei palazzi di fronte. Dicono che un soldato volle attraversare la piazza durante l’attacco, che una bomba d’aereo gli cadde accanto e che il suo corpo sia sparito nel nulla. Mentre ci pensavo, Wikipedia mi ha ricordato che il 25 maggio 1992 vennero celebrati i funerali di Giovanni Falcone. Rileggendo le cronache è tornato a galla un po’ dello sgomento di quei giorni. La sensazione (non so quanto inattuale) che l’Italia fosse spacciata e la Mafia molto più forte del Diritto. Poi ho ritrovato alcuni dei discorsi che echeggiarono in quei giorni, e ho pensato che non esiste miglior macchina del tempo delle parole ancora vive di un testimone oculare. Parole come quelle di Rosaria Costa, la vedova dell’agente Vito Schifani, ucciso insieme a Falcone, che disse, rivolta ai boss: “Io vi perdono, però vi dovete mettere in ginocchio”. O le parole di Ilda Bocassini, rivolta ai suoi stessi colleghi: «Voi avete fatto morire Giovanni, con la vostra indifferenza e le vostre critiche; voi diffidavate di lui; adesso qualcuno ha pure il coraggio di andare ai suoi funerali». Le più dure però, le parole più spiazzanti, le aveva dette tempo prima Paolo Borsellino, che forse durante quei funerali si stava chiedendo quando sarebbe toccato a lui. E le aveva dette a Falcone: “Giovanni, ho preparato il discorso da tenere in chiesa quando ti avranno ammazzato. In questo mondo ci sono tante teste di minchia. Teste di minchia che tentano di svuotare il Mediterraneo con un secchiello, quelli che sognano di sciogliere i ghiacciai del Polo con un fiammifero. Ma oggi, signore e signori, davanti a voi, in questa bara di mogano costosissimo, c’è il più testa di minchia di tutti. Uno che si era messo in testa niente di meno, di sconfiggere la mafia applicando la legge”.
Nacqui dopopranzo, un martedì. Dovevo chiamarmi Sonia (non c’erano ecografi) o Mirko. Mi chiamo Luca. Dubito che, fossi femmina, mi chiamerei Sonia. A otto anni è successo qualcosa. Quando racconto dico sempre: “quando avevo otto anni”, come se prima fossi in letargo. Sono cresciuto in riva a mare, campagna e zona urbana. Sono un rivista. Ho studiato un po’ Filosofia, un po’ Paesaggio, un po’ Nuvole. Ho letto qualche libro, scritto e fatto qualche cazzata. Ora sto su Sardegnablogger. Appunto.
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