di Tore Dessena, Maria Dore, Nardo Marino
Ci siamo chiesti se fosse il caso di acquistare i biglietti a Novembre, per un concerto che si sarebbe dovuto tenere a fine Maggio.
“Prendiamoli. Tanto lui non muore” I complicati incastri fra esigenze di lavoro e orari dei voli ci obbligano a presentarci ai cancelli passate le 17:30. Troppo tardi per conquistare una posizione strategica; la folla che fin dalle prime ore del pomeriggio affluisce nel catino del Pasienky Stadion sarà oceanica. Ci sistemiamo al fianco del mixer: le torri metalliche con l’impianto audio e i cameraman, adeguatamente incellofanati, completano la dotazione tecnologica. “Pasienky Stadión, please”. “Yes: Depeche Mode!” replica il tassista, evidentemente impegnato a trasportare fan già dalle prime ore del pomeriggio. Appena il tempo di accomodarci sulla Passat di Richard e Personal Jesus irrompe nell’etere, trasmesso da una delle innumerevoli stazioni radio di Bratislava. Quale migliore incipit? La folla inizia a comporsi. È una fiumana ininterrotta, costante e trans-generazionale, quella che affluisce nel Pasienky Stadion, tana dello Slovan Bratislava riconvertito ad arena rock per l’occasione: vecchi residuati bellici degli anni ’80 – evidentemente, qualche volta se ne esce vivi, dalla funesta decade decantata dal nostro Manuel Agnelli – metalheads con un debole per i campionamenti – a questa categoria si ascriverebbe pure il sottoscritto – mamme con figli al seguito e teenagers in ordine sparso. Basterebbe questo per comprendere il prodigio che si nasconde nelle pieghe della musica – e del carisma – dei ragazzi di Basildon. Entriamo anche noi nello stadio; dopo gli immancabili anatemi per essere finiti troppo lontani dal palco ci affidiamo agli scongiuri per evitare la pioggia. Non serviranno.
Me lo ero detta tempo fa che sarebbe stata una delle cose da fare nella vita. Come vedere il Colosseo, la Tour Eiffel, le Piramidi dei Faraoni. Ce l’ho fatta. Il più grande frontman vivente è davanti a me. Predestinato a essere idolo, la sua voce e il suo corpo che se ne fottono delle droghe, gli eccessi del passato, il tumore. Bastava vederlo a vent’anni, Dave Gahan, in uno show di un canale tedesco e rispondere divertito a monosillabi alle poco interessanti domande del presentatore, prima di esibirsi con Shake the disease in playback. “Di cosa parla il vostro ultimo singolo?” “In pratica è una canzone d’amore” Shake the disease non era in scaletta sabato scorso a Bratislava ma non c’è da lamentarsi quando si ha l’opportunità di sentire Everything counts e Stripped, una dopo l’altra. Due capolavori che autorizzano a pensare che lo schietto impegno sociale di alcuni pezzi dell’ultimo album – si consideri fra tutte Going backwards che apre disco e i live del tour- Spirit, fossero già presenti, e in forma ancora più efficace in queste hit dei gaudenti anni ’80: La metropoli non ha niente a che vedere con questo Stai respirando in fumi Che assaggio quando ci baciamo Prendi la mia mano Torna sulla terra Dove tutto è nostro Per alcune ore Lascia che io ti veda Nuda Lascia che ti senta Prendere decisioni Senza la tua televisione Lascia che ti senta parlare solo per me
Martin Gore si prende il suo meritatissimo spazio e applausi di devozione con Home, A question of lust e Somebody. Mentre canta c’é quasi silenzio e la pioggia si fa meno molesta, diventando parte della scenografia.
C’è solo una pecca nelle due ore e passa di concerto dei Depeche sotto il diluvio dell’imprevedibile maggio slovacco. La cover di Heroes non decolla mai, resta cristallizzata, neutralizzata e, inglobata nello schema sonoro del gruppo, finisce per perdere la sua carica emozionale. Parto da qui per dire che i Depeche Mode hanno dato ennesima dimostrazione di grande qualità, dopo 37 anni di vita e 14 album. Dal 1987 sfornano un nuovo disco a intervalli di tre/quattro anni. E, di solito, non lo sbagliano. Spirit viene proposto integralmente al concerto che si apre sulle note di Revolution dei Beatles, il cui testo rappresenta una sorta di punto di riferimento per Where’s the revolution, la canzone di punta del nuovo album. La mia preferita, World in my eyes, si materializza a metà scaletta. Le altre hit, quasi tutte inanellate nella seconda parte e nei bis, esaltano una folla eterogenea. I Depeche richiamano gente di ogni età, con prevalenza di cinquantenni come me. Guardarsi negli occhi, sotto la pioggia battente di Bratislava, è bellissimo quanto lasciarsi trascinare dall’onda di Never let me down again. Non finirà senza Personal Jesus, lo sapevamo tutti.
E così sarà. Il vecchio Pasienky Stadion si svuota lentamente, nella notte di Bratislava tutti cercano taxi e bus, un riparo qualunque. Piove ancora. Si cammina a testa bassa, evitando pozzanghere, con le note che risuonano ancora, da qualche parte nella testa.
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